Raccontare le storie di alcuni ristoranti vuol dire raccontare le storie di intere città.
Prendiamo Camponeschi, ad esempio: aperto nel 1987 in Piazza Farnese a Roma, il ristorante è un'istituzione capitolina, che ha visto passare nelle sue sale il jet set cittadino e internazionale, senza dimenticare le sue radici nelle campagne laziali.
Fine Dining Lovers ha parlato con Alessandro Camponeschi, terza generazione di ristoratori romani.
Com'è iniziata l'avventura della sua famiglia nella ristorazione?
Negli anni trenta con mio nonno Tommaso: gestiva molti ristoranti, tra Palazzo Brancaccio, colle Oppio e il Colosseo. Negli anni Cinquanta io padre Marino ha aperto un altro ristorante, in via Aurora, che è diventato un punto di riferimento della Dolce Vita. E poi negli anni Ottanta è stato il mio turno, a soli 23 anni. Mio padre si è opposto, voleva che facessi l'avvocato, poi ha capito e mi ha sostenuto molto.
Ha sempre saputo di voler seguire le orme di famiglia?
I momenti più felici dell'infanzia e dell'adolescenza li ho sempre passati in cucina. Ho un vero e proprio amore per la tradizione, un love affair come mi piace chiamarlo. I miei fratelli hanno seguito altre strade, farmacista lui e architetto lei, che mi ha aiutato a ristrutturare gli ambienti del ristorante. È una location del 1600, molto impegnativa, di cui abbiamo cercato di preservare lo stile - ci sono anche inserti originali dell'epoca romana.
Come ha ideato e costruito il menu del suo ristorante?
Ho pensato di fare una reinterpretazione moderna, ma non eccessivamente creativa, della cucina romana. Innovativo ma senza stravolgimento dei canoni: ad esempio facciamo una trippa alla menta, come tradizione vuole, e la proponiamo come aperitivo. Seguiamo le stagioni e le nuove tendenze, come quelle dei carpacci e dei crudi di mare, con influenze mediterranee - Triglie su pesto, carciofi croccanti e pinoli, Baccalà al vapore con puntarelle e acciughe, ma anche Astice con salsa al vino Carato, che produciamo nella nostra azienda agricola sui Colli Romani.
La sua famiglia proviene dalle zone che sono state recentemente colpite dal sisma.
Sì, da Posta, un vero e proprio crocevia - 10 km dall'Umbria e 10 dall'Abruzzo - in provincia di Rieti, di cui mio padre è stato anche sindaco. Per fortuna il paese non ha subito grossissimi danni, ma tutti hanno vissuto il terremoto da vicino: il campo sportivo è diventato un campo di accoglienza della Protezione Civile.
Il suo legame con la sua terra d'origine è anche gastronomico?
Torno spessissimo. C'è un'azienda, Viceré, fornitori già di mio nonno, che seleziona e stagiona salumi per il ristorante. Il segreto di una carbonara o di un'amatriciana è sempre la bontà di guanciale e pecorino. E poi i salami speciali per Pasqua, forme di pecorino da 3 kg che non hanno niente da invidiare ai Parmigiani migliori...
Ha fatto qualcosa per sostenere le popolazioni colpite?
Io sono vicepresidente AEPER, Associazione Esercenti Pubblici Esercizi di Roma. Tutti insieme abbiamo organizzato un ciclo di eventi che sicuramente proseguiremo. Vorremmo costruire un bar al Villaggio del Food di Amatrice, dando alle persone una possibilità di riaggregarsi, ripartendo dalla quotidianità dei rapporti sociali. Amatrice è solo un simbolo, un riferimento con cui si intendono tante piccole realtà limitrofe. Realtà verso cui tutti noi siamo in debito.
Un debito di quale tipo?
70 ristoratori romani su 100 sono arrivati da lì, negli anni Venti e Trenta. E da lì vendono alcuni dei nostri piatti migliori, come la gricia, la "vera" amatriciana, senza pomodoro, che è stato un'aggiunta ottocentesca. La gricia era il pasto principale dei pastori, che quando salivano sui pascoli si portavano un borsello pieno di pecorino, guanciale e pasta essiccata. La cucina popolare romana nasce su quei monti.