Cosa mangiassero i nostri antenati, vissuti tra 2 milioni e 200mila anni fa, è oggetto di studio degli archeologi dalla notte dei tempi. Sappiamo che erano onnivori, adoravano tuberi e radici, non disdegnavano bacche e semi, si nutrivano di ciò che cacciavano e pescavano.
Pochi, però, hanno immaginato un vero e proprio viaggio dentro alle cucine preistoriche e ipotizzato quel che ogni cuoco controlla al secondo e al millimetro di precisione: i tempi di cottura, le temperature, le lavorazioni e le tecniche usate. Difficile infatti poter indovinare gusti ed elementi basandosi semplicemente sulla composizione ossea dei primi ominidi, sulla loro dentatura, sulle misure, sui batteri ritrovati.
Tra le archeologhe più visionarie e appassionate, Stephanie Schnorr dell'Università di Leiden nei Paesi Bassi negli ultimi anni ha indagato a lungo per ricostruire le cucine preistoriche. Lo ha fatto studiando i resti degli Hadza, una delle ultime tribù indigene di cacciatori-raccoglitori che ancora abitano in Tanzania. I pochi superstiti vivono vicino alla Gola di Olduvai, uno dei siti archeologici più interessanti al mondo.
LA GELATINIZZAZIONE DEGLI AMIDI
In uno studio pubblicato su Science Daily, Stephanie ha studiato la dieta quotidiana degli Hadza vissuti in epoca preistorica , confermando che sulle tavole preistoriche finivano ogni giorno tuberi e radici ricchi di fibre, per garantire energie per la sopravvivenza. Questi tuberi potevano essere consumati crudi o arrostiti, ma gli Hadza avevano scoperto quale era il miglior modo per rendere questa pietanza gustosa, palatabile, della giusta consistenza e soprattutto avevano capito quale fosse il grado di cottura per ottenerne i maggiori benefici nutritivi.
Gli Hadza riuscivano infatti a innescare il processo di gelatinizzazione degli amidi contenuti nei tuberi arrostiti, portandoli alla giusta temperatura e grado di cottura. Questo processo, che ora sappiamo essere fondamentale per le preparazioni culinarie (pane, pasta, riso, pasticceria) poiché garantisce la digeribilità degli alimenti che contengono amidi attivando gli enzimi digestivi, è dunque una scoperta risalente ai tempi delle cucine preistoriche.
LA COTTURA DELLE RADICI
La stessa tribù aveva anche ragionato sui tempi di cottura delle radici consumate: nonostante fossero cibi non tossici anche da crudi, preferivano arrostirli per un tempo pari a 20 minuti di cottura. Avevano scoperto dunque, come esista un tempo perfetto per ogni preparazione in cucina, molto al di là del puro bisogno, provando il senso dell'attesa per gustare al meglio un piatto, proprio come avviene ai tempi nostri.
DALLA CARNE ALLE ZUPPE
Altre ricerche hanno indagato sulle modalità di cottura dei cibi nel corso del Paleolitico, ovvero a partire da circa 40mila anni fa, e sui recipienti usati per conservare il sapore e la temperatura. Le carni venivano cotte (arrostite e affumicate) all'interno di buchi nel terreno in cui venivano posizionate le braci e già nello stesso periodo si iniziarono a usare i primi contenitori termici e recipienti.
Si bollivano semi e radici, per poi triturarli e farli diventare minestre, all'interno di contenitori creati con le cortecce degli alberi, mentre alcune tribù di cacciatori usavano anche pentole fatte da sacche create con i resti degli animali cacciati. Nello stesso periodo arrivarono anche i primi contenitori di ceramica, e le tecniche di cottura si affinarono divenendo simili alle nostre odierne: eppure erano 14mila anni fa.
Solo nel Neolitico, dunque a circa 6-8mila anni prima di Cristo, nelle cucine dei nostri antenati iniziarono a comparire tecniche diverse e vicine ai nostri usi: la tecnica di uso del sale per conservare le carni e quella della vinificazione sono risalenti proprio a quegli anni.