Tra le parole che non avrei mai pensato di ascoltare ci sono sicuramente bee ambassador and bee enthusiast. Eppure a Indigenous Terra Madre venivano usate entrambe, spesso e decisamente con orgoglio. Nel raduno di 140 tribù indigene da tutto il mondo organizzato da Slow Food gli apicultori erano tantissimi, provenienti da ogni parte del pianeta, e lo stesso Nord Est dell’India, dove si è svolto il congresso, è un’area di importanza internazionalmente riconosciuta per l'apicoltura.
Durante il festival le occasioni di assaggiare questi mieli indigeni erano numerose - più o meno ogni volta che ci capitava un cucchiaio di bambù in mano - ma nessuna ci ha colpito come un taste workshop dedicato al miele a cui hanno partecipato produttori di quattro diverse tribù, tre del Nord Est dell’India (Garo Hills, East Khasi Hills, Nagaland) e una dell’estremità meridionale del Tamil Nadu.
IL MIELE DELLE ROCCE DI NAGALAND
Il Nagaland è uno degli stati indiani dove c’è il maggior consumo di miele - poco meno di 200 grammi rispetto a una media nazionale di circa 10. Qui nel 2007 è stata istituita la Nagaland Beekeeping and Honey Mission proprio con lo scopo di riunire tutte le beekeeping communities, incrementare la produzione di miele e renderne possibile il commercio in un modo più organizzato dei mercati di villaggio.
Le 16 tribù che abitano queste verdissime colline hanno sempre vissuto in simbiosi con le api, che nelle foreste scarsamente abitate - e dove i pesticidi sono pressoché assenti - trovano un habitat perfetto, un paese di Bengodi per creature ronzanti. I numeri sono sinceramente impressionanti: 12.000 beekeepers, 40.000 bee colonies. Un patrimonio di conoscenze che però fino ad adesso non sono state sistematizzate e nemmeno rese sicure. Non solo da un punto di vista igienico: le Rock Bees, ad esempio, sono una specie che vive nelle rocce, per raccogliere il cui miele gli uomini si arrampicano - anche a grandi altezze - a mani nude senza nessun tipo di protezione.
AMARO E TERAPEUTICO, MA SEMPRE MIELE
Questo miele “roccioso” ha un sapore molto più amaro di qualsiasi miele abbiamo mai assaggiato, molto diverso da quello piccante della Stingless Bee, o quelle sour proveniente dalle colonie che vivono sottoterra. Retrogusti quasi medicinali, che in effetti fanno la spia sulle proprietà terapeutiche di queste varietà, decisamente di più del nostro “un cucchiaio di miele per il raffreddore”. Qui il miele si spalma sui morsi di serpente, viene utilizzato per curare la congiuntivite (anche se la procedura che ci spiegano non è chiarissima) e consigliato a chi ha problemi gastrici o di costipazione: per capire l’importanza che riveste per queste tribù, basta sapere che prima di raccoglierlo i beekepers fanno una cerimonia di purificazione.
LA BIODIVERSITÀ DEL MIELE
Nel frattempo viaggiamo fino all’estremo opposto del paese, Nilgiri Biosphere Reserve, assaggiando un cucchiaino di miele Kurinji, che proviene dall’omonimo fiore: una delicatissima creatura blu che fiorisce una volta ogni dodici anni, e da cui le api creano un miele di colore nero e di una dolcezza intensissima. Ma non è solo questione di edonismo foodie nell’assaggiare mieli rari. Già da anni si collega la diminuzione del numero di api al declino della biodiversità: l’inquinamento, l’estensione delle monocolture, la perdita di specie vegetali, sono solo alcuni dei motivi per cui cala il numero di api, provocando poi un effetto a catena. Considerato che al mondo esistono circa 22.000 specie di api, limitarsi ad acquistare il barattolo di liquido giallo e zuccherino che troviamo nei supermercati appare come un gesto ancora più limitato e limitante.
DALL'INDIA AL MESSICO
Alla fine dell’incontro sul palco sale Leonardo Duran Olguín, coordinatore della Tosepan Titataniske Cooperative sulla Sierra Norte in Messico. Non ha miele da far assaggiare ma ha parole e immagini per raccontare il miele di “pitsilnekmej”, una specie le cui comunità vivono nelle mancuernas, alveari dentro anfore di ceramica. Quando il miele di queste api viene raccolto, viene poi rimesso dentro alle mancuernas e lasciato a fermentare per mesi, fino ad ottenere un prodotto acido, usato come cibo e come medicina dalle comunità indigene ma praticamente impossibile da commercializzare. Mentre parla, un signore marocchino di fianco a me si agita sulla sedia: non è disponibile la traduzione in francese, la sua lingua, e lui non riesce a capire tutta la spiegazione in inglese. Cerco come posso di descrivergli come si ottiene il miele dalle pitsilnekmej (omettendo accuratamente di pronunciarne il nome) e lui lo confronta con i metodi che usa per la sua ape, la mellifera sahariana che sopporta gli spazi di temperatura del deserto. Alla fine siamo entrambi stremati dalla triangolazione linguistica - e dall’abuso di gesticolazione di noi mediterranei. “Mercì”, mi ringrazia alla fine “Anche se è difficile organizzarli, avremmo bisogno di più momenti di confronto del genere. Un réseau des apiculteurs, una rete di apicultori a livello mondiale: ecco quello che ci vorrebbe. La lingua delle api la capiamo tutti”.