Io sto sorseggiando il cocktail #2: gin, succo di mirtillo, kombucha, miso di pere e miele fermentato. Il mio commensale sta bevendo una profumatissima rivisitazione dell’Aviation con petali di rosa commestibili e bitter alla lavanda. In mezzo a noi, un tagliere dove figurano grissini di farina di sussistenza, funghi “orecchia di Giuda” marinati, pane con polvere di orzo selvatico, bottarga di trota di lago, caco mela, foglioline di achillea e centocchio. Siamo al Wood*ing Cocktail Bar, aperto da un mese e Milano da Valeria Margherita Mosca, già creatrice del Wood*ing Lab. Un laboratorio unico al mondo che ha l’obiettivo di fare ricerca sull’utilizzo del cibo selvatico per l’alimentazione umana. O, come riassume Valeria, l’obiettivo di “partire dalla tradizione alimurgica e superarla creando nuovi paesaggi commestibili”. Al momento al Lab lavorano sette persone fisse più il team del bar, Valeria viene invitata in tutto il mondo - prossima tappa: il Basque Culinary Center - per parlare delle sue scoperte e in primavera uscirà, in contemporanea in Italia e all’estero, un manuale di foraging.
MIXOLOGY + FORAGING
Il Wood*ing Cocktail Bar è il primo cocktail bar al mondo basato sul foraging. Nei bicchieri trovano posto ingredienti come le foglie di rovo o la terra di radici fermentate, miso di pere e kombucha. E per chi vuole mangiare, vengono serviti “taglieri” misti come quello che abbiamo assaggiato noi, oppure piattini a base di formaggi delle vallate intorno a Milano insieme a erbe, radici e frutti selvatici. Un locale unico, un’operazione coraggiosa - “Riceviamo parecchie critiche” spiega Valeria “C’è chi non capisce, si alza e se ne va” - e un mondo di aromi e sapori, all’interno della ‘miscelazione selvatica’, terribilmente affascinante da scoprire.
Com’è cominciato il suo percorso?
È stata una serie di coincidenze, un 1 + 1 + 1 + 1. Diciamo che l’ho sempre masticato. Mia nonna viveva in Alta Valtellina e per lei raccogliere, anche se non in maniera specialistico-scientifica, era normale. Passando tutta l’estate con lei ha iniziato a essere normale anche per me. Quando avevo sei anni facevo già mappe ed erbari, in più sono sempre stata appassionata di natura e di sport outdoor. All’università ho studiato conservazione dei beni antropologici e lì ho trovato connessioni: etnobotanica, antropologia alimentare… Poi mi sono trovata a lavorare - più per caso che per scelta - in cucina, dai ristoranti di basso a quelli di alto livello. Ho passato qualche anno al Pomiroeu di Giancarlo Morelli. Era un periodo inquieto della mia vita, avevo bisogno di qualcosa di concreto, ed è stato lui a darmi la spinta per realizzare il mio progetto - gli sono molto grata. Ho unito tutte le esperienze fatte fino a quel momento e ho aperto il Lab.
Quando è cominciato esattamente il progetto?
Circa nel 2010. Sono stata fortunata: sono arrivata appena prima che il foraging “scoppiasse”, insieme a mode come quelle del Nord Europa, e che i ristoranti iniziassero a investire nella ricerca e sviluppo. Le prime richieste quindi sono arrivate subito. All’inizio facevo soprattutto formazione e piccole consulenze - ti porto un prodotto, ti spiego come usarlo - poi da lì si è aperta una strada di ricerca, soprattutto grazie alla partnership con ERSAF, con cui stiamo proseguendo la catalogazione scientifica di tutto il cibo selvatico esistente sul pianeta dal punto di vista nutrizionale.
Come sta proseguendo la catalogazione?
È un progetto infinito! È lentissimo, tutte le analisi chimico-nutrizionali sono finanziate da noi e richiedono tanto tempo. Ora siamo a oltre 9000 specie catalogate e siamo solo all’inizio. Avevamo iniziato solo con la parte vegetale, poi si sono aggiunti i molluschi di acqua dolce, come la sinanodonta woodiana, portato dalla Cina tramite gli strumenti di pesca: è grande 30 cm, copre i fondali e rovina gli habitat di acqua dolce.
Formazione, ricerca, divulgazione, degustazione. Qual è l’aspetto che ti sta più a cuore?
Adesso il progetto in cui metterò più energie è Thinking Like A Forest per creare campi sperimentali in aree di abbandono - costiere, agricole o di alta montagna - dove lo spopolamento ha portato un grandissimo danno culturale, sociale ed economico. In questi territori noi mettiamo semi selvatici in permacoltura: è quasi come se facessero tutto da soli. “Riattivando” queste aree creiamo nuovi prodotti orticoli, quasi a impatto zero, da immettere sul mercato, rappresentando l’identità di un luogo e rafforzandone la biodiversità.
Esistono altri lab come il suo in Italia?
Esistono altri lab sensoriali, oppure ristoranti con test kitchen, ma come food lab veri e propri ci siamo noi. In Europa ce ne sono ma non specializzati sul wild food. Di realtà professionali ce ne sono poche: Miles Irving, il Noma. Quello che ci rende unici è l’interconnessione: ogni parte è fondamentale. Non puoi prescindere dal lato culturale né da quello scientifico né, ovviamente, da quello gastronomico: fare solo una di queste cose significa astrarre il concetto, è tutto troppo legato.
Quello che per lei è nato come ricerca ora è moda. Come lo vive?
All’inizio mi faceva arrabbiare e preoccupare. Un po’ egoisticamente mi dispiaceva vedere come i nostri discorsi seri avessero meno visibilità dello chef di turno che mette la radice di tarassaco in un piatto. Ora invece sono molto tranquilla: si è creato un pubblico di persone interessate, e gli chef vogliono davvero imparare, frequentando programmi formativi come la nostra Foraging Academy che è sempre piena.
Com’è nato il cocktail bar?
L’anno scorso ho pubblicato il mio primo libro. Ho deciso di farlo sulla mixology, un territorio ancora “vergine” rispetto alla cucina, e molto legato a pilastri strutturati. Il successo è stato tale che abbiamo pensato ad aprire un cocktail bar su Milano. Qui bere un drink non è solo un atto ricreativo, ognuno veicola diversi messaggi, come la cooperazione con l’ambiente e la sostenibilità. E i nostri cocktail sono salutari: contengono bevande fermentate probiotiche il cui effetto non decade con l’alcol. Piano piano vorremmo rimpinzare l’offerta gastronomica.
Riceve mai critiche perché qualcosa di “naturale”, come il foraging, in un fenomeno elitista?
Se il foraging non è compreso a livello profondo può sembrare un vezzo. Bisogna avere una visione ampia: per noi il cibo è disponibile immediatamente e senza sforzo, ma per i due terzi del pianeta non è così. Una ricerca di questo tipo può aprire le porte a una sussistenza diversa, un po’ come l’entomofagia, con la differenza che qui non si alleva né si coltiva niente. Ci limitiamo a utilizzare l’inutilizzato. E poi qui al Wooding Bar abbiamo offerte popolari per la città: i cocktail costano massimo 12 euro.
Le esperienze di foraging più interessanti fatte ultimamente?
Quello che io chiamo foraging 2.0 si concentra sulle piante invasive, catalogandole dal punto di vista alimentare, per una cooperazione ancora più profonda con l’ambiente. Qui in Italia sono soprattutto piante ornamentali asiatiche introdotte negli anni Ottanta, che hanno invaso gli ecosistemi mettendo a rischio la nostra biodiversità. Il poligono del Giappone, ad esempio, sta creando danni enormi all’ecosistema: scoprire che era buona da mangiare mi ha entusiasmato. E poi mi riempie il cuore imparare da 90enni conosciute a 2500 metri in montagna. Loro mangiano il cibo selvatico tutti i giorni, da tutta la vita.