Nelle ultime settimane non si è parlato d’altro: se i ristoranti non trovano personale è colpa del reddito di cittadinanza. Anzi no, il problema è dei giovani (qualunque entità identifichi questa parola) privi di spirito di sacrificio e devozione al lavoro. O forse è colpa del Covid, che ci ha concesso il lusso di rivalutare il tempo libero e quello passato in famiglia?
Tra denunce, polemiche e qualche fake news, il dato di fatto resta però lo stesso: con l’avvicinarsi della stagione estiva, allentate le limitazioni sanitarie richieste dalla pandemia, chef e patron lamentano la difficoltà di trovare nuove risorse da inserire in sala e cucina. Con il risultato che molte realtà sono costrette a riorganizzarsi, diminuendo il numero di coperti o allungando i turni di lavoro, oltre a rinunciare a nuovi progetti messi in standby per mancanza di personale.
Ecco perché, se la complessità è troppa per essere ridotta e banalizzata in qualche slogan, conviene partire dai numeri: stando ai dati di Unioncamere, nei cosiddetti “locali di somministrazione” (bar, ristoranti, pasticcerie) mancano all’appello circa 51mila persone. Un numero sei volte maggiore (circa 300mila persone) se si prende in considerazione l’intero comparto del turismo.
Oltre a questo dato va considerato quello rilevato da Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi, secondo cui sono circa 120mila i lavoratori a tempo indeterminato che hanno lasciato il proprio posto nel settore della ristorazione durante i due anni di pandemia.
Ma non è tutto. Per avere un quadro d’insieme davvero completo, bisogna valutare l’andamento mostrato dal settore nell’ultimo decennio: nel 2011, in base ai dati di Confcommercio, in Italia si contavano 112.234 bar; nel 2020 la cifra era arrivata a 222.324, con un incremento pari al 98%. Il doppio in dieci anni, insomma. Se ai bar si aggiungono anche i ristoranti si arriva a un totale di 333.640 (dato Fipe): in pratica un locale di somministrazione ogni 180 abitanti.
Alla luce di queste premesse, trovare una e una sola causa per la carenza di personale è difficile se non impossibile. Se è vero che il lavoro sommerso, sfruttato e sottopagato resta ancora una realtà – come dimostrato da una recente inchiesta di Roma Today – nella maggior parte dei casi balzati agli onori della cronaca i lavori offerti da ristoranti più o meno stellati prevedevano un regolare contratto: ma, nonostante questo, sono rimasti lettera morta.
Che sia colpa (o merito?) del Covid è difficile stabilirlo, ma forse è davvero arrivato il momento di fare una seria riflessione sulla cultura del lavoro in un senso più ampio e autentico: non limitandosi ad additare i “giovani” come pigri o troppo arroganti, per questo automaticamente tentati dalla facile strada del reddito di cittadinanza. Ma nemmeno negando il fatto che il settore della ristorazione abbia le sue regole fatte di passione, orari a volte incompatibili con la vita privata e sì, qualche sacrificio.
Forse è arrivato il momento di (ri)parlare di formazione, educazione al lavoro e soprattutto sostenibilità umana: un concetto che piace tanto a noi giornalisti e che anche gli imprenditori iniziano a considerare un valore aggiunto per la propria attività, per quanto sia difficile capire come conciliarlo con le flessioni di fatturato. Non è un caso che negli ultimi due anni sia entrata nel nostro vocabolario l'espressione work-life balance, inglesismo per rendere l'idea di un migliore equilibrio tra vita lavorativa e privata: perché la verità è che, da due anni, ciascuno di noi - nessuno escluso - si è trovato costretto a riflettere sulla propria vita, ridefinire priorità e valutare - con l'onestà che solo l'incertezza di un evento tanto imprevedibile regala - cosa contribuisca in modo autentico al proprio benessere. Un'onda lunga della pandemia che ci riguarda tutti, qualunque sia il settore in cui lavoriamo. E la ristorazione non fa eccezione.