Ci sono luoghi che cambiano senza perdersi e Da Lucio è uno di questi. Nato nel 2019 come trattoria di quartiere, oggi è un ristorante che ha trovato la sua dimensione ideale sul mare, nella Darsena di Rimini, immerso in quello che è da sempre il suo elemento. Un cambiamento naturale, che racconta l’evoluzione di Jacopo Ticchi, lo chef che ha saputo rileggere la cucina di pesce con uno sguardo radicale, senza compromessi.
Qui il mare è protagonista in ogni sfumatura, ma non si ferma alla superficie: entra nel piatto attraverso una visione che esplora l’intero ecosistema adriatico. La frollatura del pesce, pratica che Ticchi ha contribuito a diffondere in Italia, è ormai solo un tassello di una cucina che guarda oltre, in continuo dialogo con terra e fuoco. Il nuovo spazio esalta questo percorso con una cucina a vista dove il calore della brace e il ritmo della sala si fondono in un’unica esperienza.
Non è solo una questione di cucina: Da Lucio è un progetto gastronomico che si muove tra ricerca, artigianalità e sostenibilità, spingendosi sempre un po’ più in là, senza paura di mettersi in discussione.

È domenica mattina e mentre faccio il check-out dall’hotel, chiedo: “Mi consiglia un posto dove andare a pranzo prima di ripartire per Milano? Ieri ho pranzato Da Lucio.”
Il tizio mi guarda fisso poi alza una mano, la fa roteare in aria, ride e mi risponde: “Ah va beh, ma se ieri è andata Da Lucio, cosa vuole che le consigli ora?”
Ok, mi sembra di capire che i riminesi abbiano una buona considerazione di Da Lucio e di Jacopo Ticchi. Come biasimarli.
Prima del mio pranzo qui, prenotato a dicembre, ho incontrato Ticchi al congresso di Identità Golose. Sul palco di Identità di Pesce, Ticchi si interrogava sul sapore del mare senza, paradossalmente, riuscire a darsi una risposta. Non era una domanda retorica. Era una domanda aperta, un dubbio che — da quel momento — mi ha accompagnata anche fuori da quella sala.
Perché, in fondo, io il sapore del mare lo conoscevo benissimo fino a quel momento. O almeno così credevo. Ci ho pensato per giorni, cercando di darmi una risposta. Nel mio film mentale, ero pronta a tirarla fuori a pranzo, nel caso Ticchi me lo avesse chiesto.
La nuova location sul mare

È marzo e ovviamente piove. Forse non il clima ideale per godersi questa inedita location, che però non è semplicemente affacciata sul mare. È sul mare. Per me è perfetto così. Il cielo plumbeo e il mare nelle sue cinquanta sfumature di grigio mi trasmettono una piacevole sensazione.
Il ristorante si apre in un’unica sala enorme, preceduta dalle celle di frollatura, che accolgono il cliente con una esplicita dichiarazione d’intenti. A destra un social table, a sinistra la cucina concentrica, dove poco meno di dieci cuochi si muovono in sincronia. Nessun vetro, nessuna porta, niente che separi la cucina dalla sala. Solo un ritmo condiviso, scandito dalla brace che domina la scena.
La sala si sviluppa in lunghezza, circondata da vetrate oltre le quali si scorge il dehors. E poi il mare.
Tavoli tondi molto ampi, mise en place minimale, colori chiari. Il design non ostenta nulla, eppure è magnifico. Come la musica di sottofondo: grandi classici italiani degli anni ‘60 e ‘70. All’ingresso, una scala che porta a una sala superiore. Mi dicono che al momento è chiusa e che probabilmente sarà destinata agli eventi privati.

La proposta gastronomica
Veniamo al dunque.
Al tavolo, poco dopo il benvenuto, arriva un cameriere con un vassoio del pescato del giorno. È qui che si comincia a intravedere lo stile Ticchi: niente fronzoli. Sacche di uova, interiora, sezioni di pesce disposte con precisione, si tratta delle proposte alla carta. Ma io scelgo, ovviamente, la degustazione.
Si inizia con i crudi, quelli che hanno reso famoso Ticchi per le sue tecniche di frollatura. Spigola con le sue uova e fava tonka, ombrina con gamberi viola e alghe, tonno rosso con ricci di mare, bergamotto e cucunci. Poi insalata di puntarelle e limoni di mare, fasolari e alghe.
È subito chiaro che Ticchi vuole mostrarsi senza sconti, così com’è, senza compiacere il commensale ma solo offrendogli la possibilità di farsi un giretto nella sua visione di crudo di mare. A impreziosire queste portate di crudo, più per consistenza che per gusto, c’è la terrina di pelli di pesce che esalta l’importanza delle texture da considerare un sapore a sé oltre i cinque che conosciamo.
Una riflessione personale sui crudi: sono eccellenti, c’è poco da dire, ma forse ormai ci siamo abituati a tagli perfetti che assecondano il palato alla scioglievolezza più che “disturbarlo” con altalene di masticazione.

La degustazione prosegue con la razza in crosta di pepe nero, pinoli e salsa di pesci azzurri accompagnata da misticanza condita con fegato di seppia. La razza, un pesce che sta finalmente tornando sulle nostre tavole, è cotta in modo esemplare (non scontato nel caso di queste carni), il sentore di pepe è minimo, a comandare è il gusto del fuoco. La misticanza, che suppongo servisse a rinfrescare, fa il suo lavoro a metà perché il fegato di seppia aggiunge una nota intensa e grassa che persiste sul palato.
Poi arriva il filetto di pesce pregiato alla brace, servito con il suo quinto quarto laccato nel forno a legna, cipolle cotte nella cenere e trippa di pesci misti. Le trippe dovrebbero non finire mai, fanno lo stesso effetto delle patatine del pacchetto, sono rock e si potrebbero mangiare all’infinito.

Siamo a metà percorso e proprio quando credo che il meglio sia superato, vengo smentita e sorpresa dal guazzetto. Il brodetto di pesce tradizionale, servito in un tegame di coccio e cotto alla brace, racconta della Romagna, di intingoli senza tempo, di cotture perfette e di sapori autentici. Il consiglio è uno solo: non toccate la focaccia che vi serviranno a inizio pasto. Aspettate questo piatto e usatela in quel momento.
L’intermezzo è la portata successiva e qui torna la firma di Ticchi con polpo, caffè e granita al lime. Una moneta di polpo crudo con una masticazione complessa, domata solo dalla freschezza della granita fatta con acqua di mare e lime. Un piatto da ascoltare, più che da giudicare.

È arrivato il momento dell’ultima portata, un pre-dessert che, in realtà, è una pasta. Nessuno si stupisce più per una pasta servita in ultima portata prima del dolce, ma a stupirvi sarà certamente la sua essenza. I cappelletti vuoti alla panna e fegato di pesce hanno una masticabilità tenace, intrigante e chiudono un cerchio che porta il segno distintivo di Jacopo Ticchi: l’importanza delle consistenze.
Per il dolce verrete accompagnati nella zona dedicata e potrete scegliere quello che più fa per voi. Forse questa è la parte più debole del percorso, ma la sbrisolona con lo strutto che ho provato è diventata una nuova ossessione.

Il vino e il servizio
Se solo qualche anno fa mi avessero detto che un giorno avrei pasteggiato in un ristorante di pesce bevendo due vini rossi, mi sarei messa a ridere. Eppure, Da Lucio, è successo. La carta dei vini è ben scritta e ha delle chicche divertenti e interessanti. Il sommelier, come tutti i suoi colleghi e le sue colleghe di sala, è molto preparato e consiglia senza imporsi, accompagna il cliente nel suo percorso personale, lo legge e sa fino a dove può arrivare sotto tutti i punti di vista. Il servizio è informale, piacevole e ben eseguito. Jacopo Ticchi, che ho conosciuto e visto in diverse occasioni fuori dal suo ristorante, mi era sempre parso come un cuoco molto serio che non perde mai di vista il suo obiettivo. Nella sua cucina invece ride e si diverte, nuota in acque che conosce molto bene ed è perfettamente dentro al suo elemento.
Alla fine Ticchi non mi ha chiesto che sapore ha per me il mare e ci sono rimasta un po’ male perché avevo pronta la risposta. Il mare ha il sapore dell’acidità che resta sul palato dopo aver mangiato qualcosa di molto salato. O forse no. Forse il mare è così grande da non avere un solo sapore. Forse sa semplicemente delle coste su cui si infrange.