Dietro le grandi vetrate di Berberè, un susseguirsi di tavoli in legno chiaro invita a una pausa informale, valorizzata da una luce naturale che ricade con discrezione sull’ambiente. Il locale si distingue per un’estetica essenziale: pareti spoglie, accenti nordici e dettagli industriali dialogano con stoviglie semplici e una disposizione degli spazi che mette al centro la convivialità, senza orpelli. Qui, il tempo sembra scandito dalla ritualità della preparazione e della condivisione. La visione di Matteo Aloe permea ogni aspetto dell’esperienza, dalle scelte di cucina all’impostazione della sala. La sua è una cucina di assoluta trasparenza: la ricerca della materia prima non si limita al gusto, ma coinvolge consistenza e freschezza, assegnando una centralità agli ingredienti che si avverte subito, persino all'impatto visivo di ogni portata. Pane e impasti lievitano lentamente, sviluppando fragranze che emergono al taglio e si concretizzano in una palette di profumi lievi e persistenti. La pizza, vero fulcro dell’offerta, si presenta con bordi ariosi e una base elastica, frutto di impasti lavorati con farine semintegrali e lunghe fermentazioni naturali. L’abbinamento degli ingredienti viene studiato per sorprendere senza forzare il palato: pomodoro biologico, olio extravergine di oliva selezionato e latticini ottenuti da piccoli produttori artigianali si combinano in proporzioni accurate. Ogni condimento rispetta una logica di essenzialità e valorizzazione dei sapori autentici. L’espressione della semplicità attraversa il menù, evitando qualunque concessione a effetti compiaciuti o travolgenti. La filosofia di Aloe trova sintesi in una cucina che reclama rigore e integrità, evitando ogni artificio tecnico che non abbia una funzione precisa nella costruzione del piatto. In quest’atmosfera, il percorso gustativo si sviluppa in modo fluido, dove le consistenze croccanti e arrendevoli della pizza lasciano spazio a un finale equilibrato, sciolto e asciutto sul palato. Berberè offre così un’esperienza che rifugge la spettacolarizzazione, preferendo lasciar parlare le materie prime e invitando chi si siede ai suoi tavoli a riscoprire la gioia silenziosa dell’autenticità.
