Se avessimo visto una Delorean parcheggiata davanti all’Hotel Lord Byron a Roma non ci avrebbe affatto stupiti. Questo boutique hotel fa parte della catena di affiliazione Small Luxury Hotel (Slh) e ha preso il posto di un antico convento in una zona riservata del quartiere Parioli. Varcandone la soglia, si entra in una dimensione in cui tutto racconta della passione del fondatore, l’imprenditore Amedeo Ottaviani, per l’Art Nouveau e per l’Art Dèco. Da non dimenticare che lo stesso Ottaviani diede il via all’impero Relais Le Jardin, che a Roma è sinonimo di catering di alto livello, dai matrimoni agli eventi istituzionali, servizio in guanti bianchi, posate d’argento e piatti bordati d’oro di Richard Ginori (li vediamo tuttora nelle vetrine, nonché utilizzati per la mise en place di qualche portata al Salotto).
Giù di due piani, il Salotto
Un rapido scambio con la concierge e l’indicazione è di prendere l’ascensore per scendere al piano -2. È qui che si trova Il Salotto, ovvero l’accogliente sala con camino che ospita il ristorante gourmet di questo hotel boutique. Quasi senza finestre, questo salotto è la scatola dei ricordi di Francesco Piccinni, il giovane nipote del compianto Ottaviani, a cui la famiglia ha messo in mano le redini dell’hotel e del ristorante.
Chef Massimo Viglietti
A sua volta, il giovane rampollo ha lasciato le chiavi della cucina nelle mani di uno chef che le stelle Michelin le ha viste, Massimo Viglietti. Due stelle Michelin all’apice della sua carriera per lo chef, tante quante ne aveva ottenute il ristorante Relais Le Jardin alla fine degli anni Ottanta. “Quando ero giovane io – racconta lo chef di origini genovesi, o meglio genoane, come ci tiene a
sottolineare mostrando il tatuaggio del grifone sull’avambraccio – diventare lo chef di questo
ristorante era l’obiettivo a cui tendere”.
Una montagna russa spazio-temporale
Qui la continuità spazio-temporale diventa una montagna russa. Questo chef non più giovinetto,
interiormente ed esteriormente punk come mostra la cresta che continua a sfoggiare, va in
contrasto con le atmosfere retrò con i suoi piatti: è come i due quadri che dominano la sala, uno
Schifano e un Dorazio, che con un tocco colorato di Pop-Art e astrattismo spezzano l’austerità
della cornice Decò. La collocazione delle due tele è una scelta di Piccinni, che come il nonno
frequenta le aste d’arte, pescando tuttavia qualche decennio più in là.
Un particolare della sala del Salotto al Lord Byron
Mancano le tovaglie inamidate, lasciando a vista i tavoli in legno d’altri tempi, con la loro forma
esagonale, ma, tolto questo orpello, il servizio è da hotel di lusso, fatto da camerieri d’esperienza e perfino con qualche ampollosità di troppo che tuttavia non guasta nel contesto: vassoi d’argento per lo sbarazzo, l’avvinare il bicchiere a ogni cambio di vino, rigorosamente prima le donne.
Spirito anarchico, con punte di maturità
Per il pubblico romano, Massimo Viglietti è uno che non ha bisogno di presentazioni. Forte delle
sue esperienze in giro per il mondo e della doppia stella in Liguria presso Il Palma di Alassio, era
arrivato a Roma per portare la Michelin fra le bottiglie di Achilli Enoteca al Parlamento. Missione
riuscita in breve tempo, salvo poi chiudere l’esperienza dopo qualche anno.
Dopo una parentesi nelle atmosfere fusion in salsa nipponica di Taki (di cui ha conservato qualche ingrediente che ricorre oggi nei piatti), l’approdo al Salotto è per Viglietti una nuova sfida, a cui approcciarsi con la professionalità che ha accumulato negli anni di militanza fra le cucine di Italia e Francia, mista al suo spirito anarchico che traspare nei piatti.
L’intento è di lasciare il segno, con qualche gesto provocatorio che squarcia la tela come in un
Fontana, ma non senza una maturità che lo porta a fare talvolta un passo indietro per non
spiazzare eccessivamente un pubblico fatto di tanti stranieri.
Un menù che è un Concerto
Come la sala gioca sui contrasti spazio-temporali, i piatti di Viglietti accolgono il medesimo spirito con il gioco di contrasti tipico dello stile di cucina dello chef genovese. Chi lo conosceva sa di doversi aspettare piatti in cui carne o formaggio sono messi insieme al pesce con naturalezza (Seppia, lardo, cremoso di brie, lievito croccante, pepe Asakura Sansho), ingredienti opulenti usati con disinvoltura (gli Spaghettini con fondo di triglia, foie gras e caviale), il dolce che non è mai veramente dolce (i Pomodorini dolci flambé con moka di pomodoro).
Pomodorini dolci flambè con moka di pomodoro
Sono i tocchi di metallo pesante dello chef con la cresta, che ricorrono nel menù dal titolo
Concerto, il più completo con 9 portate (gli altri due sono Impressioni da 4 portate e Viaggio da 7
passaggi). Non senza qualche concessione al comfort: il McDonald’s, anteprima del nuovo menù che ci ha proposto lo chef, è un pollo fritto nel panko di rara goduriosità, forse il piatto meno Viglietti-style, eppure perfettamente nel personaggio, perché anche questo è un modo di
spiazzare e farsi ricordare con una provocazione.