Come si traduce la multiculturalità e l’inclusione in cucina? “La contaminazione della cucina è il vero segreto dell’integrazione”, risponde Battisti. “Quindi abbiamo pensato di far provare ai milanesi i piatti africani in una maniera che un italiano possa mangiare, senza troppo aglio o peperoncino, per esempio. Con la mia brigata abbiamo studiato per sei mesi, anche durante i vari lockdown del Covid, i piatti africani che si potevano adattare al nostro palato e come street food”. Il risultato? “L’elaborazione di dieci piatti che vanno dall'hummus di ceci del Nord Africa ai Fofos de Arroz del Mozambico (l’arancino di riso al cocco e gamberetti secchi con una salsa rosa allo zenzero, ndr), fino al riso keniota che cuociono nel latte di cocco, che sembra una ricetta latinoamericana. In realtà, ci sono molti piatti che conosciamo come caraibici, come per esempio il platano o il guacamole (avocado schiacciato con cipolla, peperoncino e lime), ma che in realtà vengono preparati anche in Ghana. Basti pensare che l’Africa è il primo produttore di avocado e di platano al mondo, ma lo ignoriamo: non ne sappiamo nulla di un continente così vicino!”, commenta lo chef.
Tutte le proposte sono state adattate al gusto italiano, con piatti semplici e delicati. “Le abbiamo alleggerite: i Fofos de Arroz, per esempio, hanno gamberetti secchi dal sapore molto forte, li abbiamo resi più delicati, con poco berberè. La cucina africana è tutta mangiata in strada con le mani, quindi si adatta al format di street food, anche se il riso non possiamo farlo mangiare con le mani: ecco perché abbiamo optato per un piattino compostabile. Le persone vengono da Marcel Boum per l’aperitivo, ma anche per mangiare una cucina veloce, un cartoccio… Non possiamo fare mescita, ma abbiamo cocktail artigianali in lattina di Domenico Carella”, precisa chef Battisti. “Il locale è piccolo, sono 20 metri quadrati, ed è un progetto pilota: il nostro obiettivo finale sarebbe quello di aprire qualche altro locale e fare in modo che si sostengono economicamente da soli, cioè che i ragazzi che abbiamo formino altri ragazzi in modo autonomo”.
Come è stato impostato il lavoro con i due cuochi di Marcel Boum, Prince e Riyan? “Prince è un ragazzo di seconda generazione, i suoi genitori sono del Ghana, lui viene da Brescia: faceva già il cuoco ed è anche il frontman, in sala; Riyan, invece, amava fare il cuoco, aveva una certa predisposizione", racconta. “Li ho presi a lavorare al Ratanà con me e, dopo tre mesi con contratto a tempo indeterminato, Riyan è riuscito a rendersi indipendente dal centro di accoglienza di Bresso: si è preso una casa in affitto, si è pagato un corso di italiano, ha seguito un processo di integrazione bello, come dovrebbe essere. Ho insegnato loro il menu, le tecniche: il capitale umano è importante, ho investito volentieri il mio tempo con loro e ora stanno rispondendo bene. Gli altri richiedenti asilo vengono a osservare il lavoro e, se sono interessati, scattano una serie di indagini e di domande come Ti piace questo lavoro?, Lo vorresti fare?, Sei sicuro?, Dovrai lavorare anche la sera, per te è ok?”, spiega Battisti. “L’idea è quella di affidare un posto alle persone, non chiedere di lavorare con noi: forse c’è un po’ di incoscienza, ma è una iniezione di fiducia, è quello che chiamano conscious business, quello che tutti dovremmo avere il coraggio di fare, perché fa bene a tutti, al pianeta e alle persone”. O forse, come ricorda Gaia Trussardi, basterebbe applicare un po’ di empatia nella vita quotidiana: “Quando saremo capaci di empatizzare tutti, quindi di comprendere l’altro, potremo finalmente parlare di inclusione”.