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Intervista chef Andrea Aprea

Dalla caprese a Maradona: il mondo di chef Andrea Aprea, il più milanese dei napoletani

Ci sono viaggi che iniziano per caso e altri, invece, che si programmano per una vita intera. Ci sono posti dove le circostanze ci portano e altri che, invece, rincorriamo strenuamente. La storia di chef Andrea Aprea rientrerebbe di diritto nel secondo di questi universi. Dalla nativa e mai dimenticata Napoli attraverso il mondo con un chiaro obiettivo nella testa chiamato Milano. La difficile, a volte ostica Milano. Quella città che, però, è tanto capace di accogliere ed esaltare chi sa come giocare il suo gioco.

La nebbia e il grigio della pianura non hanno spento lo spirito partenopeo di chef Aprea, anzi. La sua statuaria presenza accende ogni conversazione con racconti, aneddoti e riflessioni che raccontano la storia di uno chef che è sempre alla meticolosa ricerca della perfezione ma che al contempo non perde mai di vista la propria identità. Nella vita come nella cucina, nelle trasferte calcolate al minuto per seguire il suo Napoli al San Paolo come nei piatti – dal Menu Partenope e oltre – dove la sua personale idea di tradizione fa da filo conduttore sempre coerente e mai banale.

E allora, tra domande inaspettate e pensieri più rivolti all’industria e all’attualità, scopri insieme a noi chi è davvero chef Andrea Aprea, il più milanese dei napoletani a Milano.

Lei arriva a Milano nel 2011 dopo aver girato il mondo e possiamo dire che questa città le ha cambiato la vita. Si ricorda la prima sensazione che le ha provato approdando qui?
Innanzitutto, io ho scelto Milano. Volevo venire qui perché la città stava vivendo un momento molto particolare a livello socio-economico, ma io sentivo che era in procinto di esplodere ed emergere. C’era appena stato il crack finanziario americano, gli affari arrancavano ma Milano vedeva all’orizzonte la grande opportunità di Expo 2015. E io, personalmente, a questo appuntamento ci sono arrivato pronto: avevo preso la stella nel 2012, dopo soli 11 mesi in città, e mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto, in una città che per 12 anni, fino alla pandemia, è cresciuta costantemente e in maniera esponenziale. Questo è quello che mi ha dato Milano. Una città di opportunità, fedele alla coerenza e alla dedizione. Sì, Milano mi ha accolto, mi ha adottato e io mi sono sentito da subito anche a casa.

C’è un profumo o un sapore che l'ha colpita di questa città?
Vengo da Napoli che è una città marittima, Milano invece è una città di affari, dove ci sono vibrazioni legate a tutto quello che succede, e che succede molto velocemente. È stato questo il profumo che mi ha confermato la volontà di fare questa scelta e rimanere qui.

Lei parla spesso della memoria come ingrediente chiave della sua cucina. Quali sono le memorie personali da cui attinge oppure che hanno contaminato e continuano a contaminare i suoi piatti?
Parto dal presupposto che la mia è una cucina italiana contemporanea, che vuol dire che tutto quello che è Italia per me è cucina italiana. La contemporaneità mi consente di rendere attuale la tradizione. Credo inoltre che lo chef sia in primis ambasciatore della nostra cucina, soprattutto in una città come Milano dove abbiamo tanti turisti stranieri e quindi divulgare sempre di più i concetti è fondamentale: chi viene qui a cena trova un'identità e non qualcosa che può mangiare uguale a Londra, a Dubai, a New York.

Lei spende le sue giornate a cucinare per gli altri. Ma capita mai che pranzi o ceni con un panino al volo? 
Devo dire che no, io pranzo e ceno regolarmente. Cucinare per me oggi è un gesto che mi viene quasi automatico, e in fondo per mettere insieme un pasto bastano poche cose semplici ma buone. Con mozzarella di bufala, pomodoro, olio e basilico buoni ti fai una caprese e hai mangiato. Il cibo deve essere considerato come la nostra benzina: se non è di qualità, il motore alla lunga si inceppa. 

C'è un ingrediente che non entra mai nella sua cucina?
Ho un rapporto controverso con alcune interiora, come il rognone o il fegato, perché non ne amo il gusto. E se cucini qualcosa che non ti piace, difficilmente ti verrà bene.

E uno invece che, se potesse, metterebbe in ogni piatto?
Sono un grandissimo fan del pomodoro, è l'ingrediente che non può mai mancare nella mia dispensa. Credo sia un riflesso di come sono cresciuto: ricordo i miei nonni che nella corte del loro palazzo tra luglio e agosto facevano barattoli su barattoli di conserve perché era l'unico modo per preservare ciò che poi durante l’anno non potevi trovare nei mercati. Quindi probabilmente questo forte imprinting, anche di gusto, mi è rimasto.

Prendiamo due figure iconiche, una legata alla sua città una legata invece alla sua storia: Diego Armando Maradona e Gualtiero Marchesi. Potendo immaginare di riportare in vita e alla sua tavola solo uno dei due, chi sceglierebbe?
Ma sicuramente Maradona! C'è poco da fare, io sono super tifoso, ma a prescindere per un napoletano è una domanda a senso unico. A onor del vero, ho avuto la fortuna di far provare la mia cucina al maestro Marchesi quando era ancora in vita, quindi a maggior ragione scelgo Diego. Gli avrei fatto mangiare tutto il menu Partenope, dalla caprese, alla genovese, all'estrazione di soffritto sottomarino. Piatti che raccontano un rapporto viscerale con Napoli, come quello che aveva lui. 

C’è invece un personaggio che sogna di ospitare un giorno nel suo ristorante?
Michael Jordan, perché credo che lui sia l'essenza della perseveranza, della costanza. Lui per me è proprio un esempio. Gli servirei la caprese dolce-salata, perché è un piatto che racconta chi sono io in tutti i miei aspetti. 

Il mestiere dello chef è impegnativo e anche logorante. Cosa fa per distrarsi?
Faccio sport, gioco a tennis. E vado a vedere il Napoli allo stadio appena posso. Ma questo non è uno sport, è una fede!

Ci confida il guilty pleasure gastronomico di uno chef 2 stelle Michelin?
Non esiste il cinema senza il secchio dei popcorn: qualsiasi film io guardi, devo avere i miei popcorn da sgranocchiare. Un vero rito.

Parliamo di mentorship. Lei ha accompagnato Michele Antonelli alla Grand Finale della S.Pellegrino Young Chef Academy Competition nel 2023 e ogni giorno guida una brigata di ragazze e ragazzi volenterosi. Ma chi è stato il suo più grande mentore?
Io ho avuto un percorso professionale che mi sono scelto: guardavo cosa faceva uno chef in una determinata cucina, cosa poteva darmi, e lì mi candidavo. Non ce n'è uno in particolare, ho appreso da tutti, da Heston Blumenthal a Pino Palazzo. Poi arriva un momento che diventa il confine tra il vecchio e il nuovo, tra il tuo passato e il tuo presente. In quel momento devi decidere chi sei, cosa vuoi fare e stare molto attento perché devi trovare la tua identità. E metterti in gioco, perché fare lo chef non vuol dire solo cucinare ma anche essere manager e talvolta imprenditore. 

Qual è la cosa che si impegna di più a trasmettere ai ragazzi della sua brigata?
Il problema fondamentale oggi è trovare persone appassionate. Perché solo se trovi persone appassionate, riesci a trasmettere. Questo è un lavoro che devi amare, perché devi partire dal presupposto che tu fatichi per far godere altri nello stesso momento. Non mi interessa che chi arriva nella mia cucina sia pieno di capacità, però mi interessa che abbia passione e abbia voglia di imparare. Succede un po’ come nello sport: quanti atleti talentuosi non hanno la testa giusta e si perdono nelle loro potenzialità? Anche in cucina ci vogliono continuità e costanza, tutti ingredienti imprescindibili. Non è per tutti.

Qual è l'aspetto che le piace di più nel lavorare coi giovani? Vede qualcosa in questa generazione di diverso dalla sua?
I ragazzi hanno una carica, un’energia che puoi avere solo in quella fase della vita. Devi far capire loro che devono concentrare le loro forze perché sono nel momento in cui hanno il massimo delle possibilità aperte davanti a loro. Ed è la cosa più difficile. Lo chef non è un lavoro che si può fare da remoto, esige sacrifici. E poi questo è un lavoro che rimarrà sempre umano: dal cameriere al cuoco, tutti devono saper empatizzare con l’ospite. 

C'è un consiglio che lei oggi darebbe al giovane Andrea Aprea?
Non per presunzione, ma credo di aver fatto una strada giusta: la storia parla per te, si scrive e non si legge. Questa è la verità. Ho fatto un percorso di sacrifici. Ero concentrato sul mio obiettivo e l’ho perseguito con coscienza. Forse mi sarebbe piaciuto fare un'esperienza in Giappone, col senno di poi. Per il resto sono molto soddisfatto di quello che ho fatto. 

Dallo scorso anno lei è diventato anche uno dei volti della giuria di Celebrity Chef. Come valuta fino ad ora questa esperienza? C'è qualcosa che l'ha colpita particolarmente dei vip che si sono cimentati ai fornelli?
Ho trovato delle persone che hanno come indole il saper cucinare, e lo vedi da quello che fanno quando si ritrovano tra i fuochi. Cito però due piatti che mi hanno davvero colpito: gli strepitosi passatelli in brodo di Paolo Cevoli e la buonissima pasta e patate di Big Mama.

Cosa le piace del fare tv e cosa no? 
All’inizio è stato strano portare la mia vita quotidiana - perché questo è per me la cucina - sotto i riflettori. Poi ci ho fatto l'abitudine. Il format è molto divertente, quindi è stato facile mettersi a proprio agio. A volte è invece stato difficile dare un giudizio, soprattutto quando trovavi qualcuno davvero appassionato ma, per forza di cose, privo di tecniche o conoscenza.

Facciamo il gioco della torre. Cosa tiene e cosa butta tra mozzarella di bufala e pomodoro? 
Vi stupirò rispondendo… il pomodoro. Non sono matto, vi ho detto che è il mio ingrediente preferito. Ma il pomodoro deve essere fresco, scelto nella stagione giusta e lavorato nel modo più appropriato. La mozzarella di bufala invece è così com’è: se mangi un grande prodotto è difficile sbagliare. Quindi tengo la mozzarella di bufala. 

Pizza o sfogliatella?
Mi tengo la pizza. Ma non per altro: sono in una fase di contenimento dei dolci, perché sono una persona molto golosa e mi devo limitare. Quindi, per non cedere in tentazione, butto la sfogliatella. 

Casatiello o pastiera?
Butto il casatiello. Perché la fetta di pastiera a Pasqua è imprescindibile: lì è concesso soddisfare il vizio! 

Ha tre prodotti da portare con sé su un'isola deserta. Quali sceglie? 
Tanta pasta, tanto olio, tanto pomodoro. Almeno mangio!

Se non avesse fatto lo chef, quale altro mestiere sognava da bambino?
Sono una persona molto meticolosa, quindi probabilmente avrei fatto l'architetto perché è un lavoro di precisione. Devo dire che ho una passione per tutto ciò che è di design, specialmente l’oggettistica.

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