Le onde che si infrangono poco lontano fanno da colonna sonora alla sala, posata quasi in dialogo con la spiaggia. Taverna del Capitano accoglie con ambienti intimi, rifiniti in legno chiaro e dettagli marini, dove la luce naturale filtra creando giochi soffusi sulle pareti. Nulla è lasciato al caso: la cura dell’arredo si riflette nella composizione dei tavoli, nelle porcellane scelte con attenzione, nei toni caldi che invitano alla calma.
La mano di Alfonso Caputo emerge da ogni dettaglio del menu: ciò che affascina è la sua capacità di attraversare la tradizione senza perdersi in richiami ovvi. Si percepisce subito quel desiderio di giocare con il territorio costiero come una materia da modellare. La cucina racconta trame di sapori freschi—profumo intenso di agrumi campani, la sapidità elegante del pescato giornaliero e incursioni di ortaggi stagionali. L’impronta dello chef si fa notare nella scelta di tecniche che conservano la consistenza originaria degli ingredienti, evitando forzature, ma senza paura di abbinamenti sorprendenti, come la combinazione di crostacei con accenni vegetali lievi e acidità calibrate.
L’esperienza al tavolo si costruisce per stratificazioni: i piatti si presentano con cromie vivaci, disposizioni studiate che danno respiro agli elementi, in piena sintonia con l’ambiente circostante. Caputo esprime la sua filosofia con una cucina di precisione, guidata dalla conoscenza profonda delle materie prime. Piatti come il suo omaggio ai frutti di mare, mai scontati nella loro freschezza, raccontano una ricerca sulle texture e sul modo in cui il sapore dell’ingrediente principale viene sostenuto e mai mascherato.
L’atmosfera è pervasa da un senso di equilibrio fra innovazione e rispetto delle radici: i profumi del mare si intrecciano a tocchi erbacei, a volte una nota citrica che accarezza il palato con discrezione. Non si rincorre qui l’effetto scenico, ma si preferisce la chiarezza esecutiva, la riconoscibilità degli elementi e una sobria eleganza. L’impressione finale è quella di una cucina identitaria, dove ogni dettaglio concorre a sottolineare un legame profondo—non solo personale, ma quasi viscerale—tra chef, territorio e stagioni.