Che l’inclusione sia il nuovo mantra della società è un dato di fatto: una parola spesso abusata, talvolta utilizzata a sproposito o in maniera eccessiva. Ma nel mondo della gastronomia esistono progetti autenticamente inclusivi e naturalmente vocati all’integrazione, capaci di cogliere (e mettere a frutto) la capacità unica del cibo di creare unione e aggregazione attorno a una tavola o a una ricetta. L’attitudine a mettere in contatto popolazioni spesso solo apparentemente lontane, ma che grazie alla cucina trovano un linguaggio comune, è alla base anche di Marcel Boum, un progetto di street food africano nato a Milano da un'idea di Gaia Trussardi con la collaborazione dello chef Cesare Battisti. Sono proprio loro a raccontarci le sfaccettature di questa nuova realtà, vocata alla multiculturalità, che muove da princìpi nobili e gustosi allo stesso tempo. Il nome dell’insegna, presente in via Savona 13 da qualche mese, fa riferimento a un personaggio inventato: Marcel Boum è il Mario Rossi italiano, un individuo in cui tutti si possono riconoscere.
Marcel Boum vuole essere il punto d’incontro tra una cultura africana contemporanea di nuova generazione e un’Italia che ancora la percepisce lontana. Nasce dal dialogo con il centro accoglienza della Croce Rossa di Bresso e vuole rappresentare un modello imprenditoriale che possa coinvolgere i richiedenti asilo e accompagnarli nel loro percorso di integrazione, dando loro l’indipendenza economica.
Marcel Boum: un progetto di integrazione multiculturale
Come è nata l’idea? “Conosco la direttrice del centro di accoglienza della Croce Rossa di Bresso, l’ho cercata io nel 2018, in un periodo in cui ero libera: avevo avuto l'idea di dare vita a un’iniziativa che potesse aiutare i migranti o i richiedenti asilo a sviluppare un loro progetto, a provare a farli diventare imprenditori di una loro attività”, racconta Gaia Trussardi. “Questo perché spesso parlo con gli ambulanti che vendono i libri e magari scopro che nel loro Paese facevano i medici, i maestri, i giardinieri… Tutte persone con delle competenze specifiche, che però in Italia finiscono per strada. Ho ragionato sul fatto che qui c’è tanta disoccupazione, ma ci sono anche tanti posti vacanti, dunque ho pensato di colmare questo divario con la presenza di alcune persone che sono venute nel nostro Paese”, spiega l’imprenditrice.
Come è stato sviluppato il progetto? “Abbiamo iniziato con incontri settimanali in cui vedevamo candidati che secondo lo staff di Croce Rossa erano pronti ad affrontare un percorso del genere, anche perché non dobbiamo dimenticare che in una prima fase non è facile interfacciarsi con loro, ci sono tanti problemi. La prima idea emersa è stata quella di fare un ristorante africano per africani, mentre la mia deformazione imprenditoriale (alle spalle ho una formazione sociologica e antropologica) mi ha ha fatto optare per un progetto di street food africano rivolto a tutti e per tutti: così possiamo far conoscere a tutti una cultura che è ancora molto lontana”, spiega Trussardi. “Allo stesso tempo, l’idea di creare occupazione in una catena replicabile con questo format aumenta la possibilità di occupazione per i migranti. Ho chiesto loro di lavorare un po’ anche sulle ricette. Non c’erano cuochi tra loro, però: abbiamo fatto prove di cucina, ma nulla che potesse sostenere un ristorante. A questo punto ho deciso di coinvolgere lo chef Cesare Battisti, un amico con cui condivido etica e visione della vita: con lui abbiamo pensato a uno street food facile per il palato italiano, ma che fosse anche divertente, con un potere attrattivo per questa cultura”, racconta.
Il progetto, in questo momento inziale, è in fase di startup. “L’idea è quella di aprire altri punti vendita, almeno un altro a Milano, ma anche in altre città internazionali come Londra o Parigi, dove la presenza africana è forte. L’obiettivo in realtà non è andare dove c’è l'Africa, ma far conoscere l’africanità, perché la presenza degli africani in Italia è ancora molto separata dalla nostra realtà”, precisa l’imprenditrice. “Stiamo vedendo dei cambiamenti, ma se pensiamo anche ad altre etnie, possiamo osservare come si stia verificando il fenomeno di ‘integrazione falsa’, ovvero prevalgono le caratteristiche di un gruppo che si prende un determinato spazio in città, creando un gruppo, ma senza creare uno scambio con la nostra cultura. Ecco allora che i bengalesi aprono i loro mini market, così come gli indiani; i filippini o i sudamericani in genere diventano collaboratori domestici in genere, mentre gli africani non si vedono ancora in nessuno settore. Guardando le cose da lontano, si capisce che l’integrazione vera è tutta un’altra cosa, coinvolge ogni settore della società”, spiega Trussardi.
Marcel Boum: un nuovo umanesimo per la ristorazione
Nella cucina di Marcel Boum ci sono Prince, chef bresciano di 29 anni originario del Ghana a rappresentare gli africani di seconda generazione, e il sous chef Riyan Khani, richiedente asilo proveniente dal centro di accoglienza che fin dall’apertura lavora con e per Marcel Boum. Ma come funziona esattamente il coinvolgimento dei richiedenti asilo? “Possono venire a vedere le preparazioni, come funziona la ristorazione. Abbiamo fatto anche il meeting con i richiedenti asilo francofoni, con un incontro di mentoring: stiamo elaborando dei progetti di pre-formazione, perché rispetto all’idea originale, che era quella di aiutare le persone con dei tirocini, con l’esperienza è sorto un problema, ovvero che non è così semplice prendere un richiedente asilo e buttarlo a fare un tirocinio: vengono tutti da culture molto diverse, non sanno la lingua, hanno una concezione diversa del lavoro. E poi c’è anche lo shock culturale: i richiedenti asilo non hanno una vita facile alle spalle, hanno tutti vissuto dei traumi. Le persone che vengono qui spesso sono vittime di situazioni pesanti, di abusi e soprusi”, spiega Gaia. Eccoli allora coinvolti nel ruolo di “osservatori”, per studiare la situazione di interazione umana, per permettere loro di calarsi nell’altra cultura, partecipando a una situazione, senza i filtri della propria cultura di origine”.
In un universo gastronomico in cui si parla molto della presunta fine del fine dining, progetti di inclusione come Marcel Boum rappresentano una voce fuori dal coro, ma soprattutto, fanno riflettere. Possono essere di ispirazione sociale e cambiare realmente le cose? “Secondo me ci deve essere sempre un contenuto dietro quello che fai, ma non deve essere opportunista, anche perché le persone lo riconoscono: possono lasciarsi affascinare all'inizio, poi però il progetto non dura. Invece, quando dietro un’attività c’è un concetto, è tutta un’altra cosa: non sono mai stata un'amante del tipo di cerimoniale “stellato” e di quelle esperienze di degustazioni da 10 piatti, ma penso che il fine dining si possa concepire e fare in maniera diversa. Per esempio, credo che Marcel Boum sia uno street food fine, perché i piatti sono presentati bene e con preparazioni da ristorante e non da assemblaggio. Credo che molti chef si siano discostati dal fine dining troppo cerimoniale, a partire da Cesare Battisti, che si è distaccato sin dall’inizio da quell’approccio, con il suo ristorante milanese Ratanà, un luogo semplice e accogliente dove si mangia bene con una cucina che fa ricette estremamente sane, con un'attenzione incredibile alla materia prima e al gusto, con piatti che fanno percepire il sapere di un bravo chef. Credo nel ritorno a un umanesimo della ristorazione, dove anche le differenze sociali non si ostentano più: penso sia un effetto abbastanza normale, anche dopo il Covid. La parola lusso, per esempio, l’ho sempre odiata, perché è molto elitaria ed esclusiva”, risponde con grande consapevolezza Gaia.
Marcel Boum: l’approccio gastronomico
Come si traduce la multiculturalità e l’inclusione in cucina? “La contaminazione della cucina è il vero segreto dell’integrazione”, risponde Battisti. “Quindi abbiamo pensato di far provare ai milanesi i piatti africani in una maniera che un italiano possa mangiare, senza troppo aglio o peperoncino, per esempio. Con la mia brigata abbiamo studiato per sei mesi, anche durante i vari lockdown del Covid, i piatti africani che si potevano adattare al nostro palato e come street food”. Il risultato? “L’elaborazione di dieci piatti che vanno dall'hummus di ceci del Nord Africa ai Fofos de Arroz del Mozambico (l’arancino di riso al cocco e gamberetti secchi con una salsa rosa allo zenzero, ndr), fino al riso keniota che cuociono nel latte di cocco, che sembra una ricetta latinoamericana. In realtà, ci sono molti piatti che conosciamo come caraibici, come per esempio il platano o il guacamole (avocado schiacciato con cipolla, peperoncino e lime), ma che in realtà vengono preparati anche in Ghana. Basti pensare che l’Africa è il primo produttore di avocado e di platano al mondo, ma lo ignoriamo: non ne sappiamo nulla di un continente così vicino!”, commenta lo chef.
Tutte le proposte sono state adattate al gusto italiano, con piatti semplici e delicati. “Le abbiamo alleggerite: i Fofos de Arroz, per esempio, hanno gamberetti secchi dal sapore molto forte, li abbiamo resi più delicati, con poco berberè. La cucina africana è tutta mangiata in strada con le mani, quindi si adatta al format di street food, anche se il riso non possiamo farlo mangiare con le mani: ecco perché abbiamo optato per un piattino compostabile. Le persone vengono da Marcel Boum per l’aperitivo, ma anche per mangiare una cucina veloce, un cartoccio… Non possiamo fare mescita, ma abbiamo cocktail artigianali in lattina di Domenico Carella”, precisa chef Battisti. “Il locale è piccolo, sono 20 metri quadrati, ed è un progetto pilota: il nostro obiettivo finale sarebbe quello di aprire qualche altro locale e fare in modo che si sostengono economicamente da soli, cioè che i ragazzi che abbiamo formino altri ragazzi in modo autonomo”.
Come è stato impostato il lavoro con i due cuochi di Marcel Boum, Prince e Riyan? “Prince è un ragazzo di seconda generazione, i suoi genitori sono del Ghana, lui viene da Brescia: faceva già il cuoco ed è anche il frontman, in sala; Riyan, invece, amava fare il cuoco, aveva una certa predisposizione", racconta. “Li ho presi a lavorare al Ratanà con me e, dopo tre mesi con contratto a tempo indeterminato, Riyan è riuscito a rendersi indipendente dal centro di accoglienza di Bresso: si è preso una casa in affitto, si è pagato un corso di italiano, ha seguito un processo di integrazione bello, come dovrebbe essere. Ho insegnato loro il menu, le tecniche: il capitale umano è importante, ho investito volentieri il mio tempo con loro e ora stanno rispondendo bene. Gli altri richiedenti asilo vengono a osservare il lavoro e, se sono interessati, scattano una serie di indagini e di domande come Ti piace questo lavoro?, Lo vorresti fare?, Sei sicuro?, Dovrai lavorare anche la sera, per te è ok?”, spiega Battisti. “L’idea è quella di affidare un posto alle persone, non chiedere di lavorare con noi: forse c’è un po’ di incoscienza, ma è una iniezione di fiducia, è quello che chiamano conscious business, quello che tutti dovremmo avere il coraggio di fare, perché fa bene a tutti, al pianeta e alle persone”. O forse, come ricorda Gaia Trussardi, basterebbe applicare un po’ di empatia nella vita quotidiana: “Quando saremo capaci di empatizzare tutti, quindi di comprendere l’altro, potremo finalmente parlare di inclusione”.