Scrivere della famiglia Cerea per chi si occupa di alta gastronomia è come scrivere di Ferrari per chi si occupa di motori. Non è semplice introdurre un nome così grande che non è fatto solo di riconoscimenti e stelle Michelin, ma più che altro di piatti iconici, filosofia di cucina e anche di trend che hanno fatto e fanno il giro del mondo dall’Italia a Shanghai. La famiglia Cerea non è i Paccheri alla Vittorio, o almeno non solo questo, è un nome, un marchio di eccellenza quando si parla di ristorazione e accoglienza che, diciamocelo, sono due degli elementi che fanno parte della nostra cultura. Le intuizioni, l’estro e la propensione al rischio di Vittorio e Bruna Cerea, hanno contribuito a quello che oggi è un brand solido e autorevole nel fine dining. In occasione dell’ultima edizione di Identità Golose, il congresso che quest’anno aveva come temi centrali la rivoluzione e la disobbedienza, abbiamo intervistato Roberto Cerea (Bobo), che accanto a suo fratello Enrico (Chicco), è al timone della cucina di Da Vittorio, 3 Stelle Michelin dal 2010. Bobo Cerea è uno chef, ma è anche un imprenditore e ci ha raccontato il suo punto di vista sul futuro dell’alta gastronomia ma soprattutto sul presente che stiamo vivendo.
Non esiste innovazione senza disobbedienza, cosa ne pensa?
Penso che sia un concetto alla base della vita di ognuno. Tutti abbiamo fatto un po’ i pazzi e noi Cerea abbiamo disobbedito alle regole della nostra gioventù. Eravamo giovani e stavamo delle ore al ristorante, tutti gli altri ragazzini uscivano, noi volevamo stare al locale. Era come disobbedire a un modello per creare la nostra rivoluzione.
Bruna e Vittorio. Era il 1966 quando hanno iniziato una rivoluzione, cioè quella di inserire la cucina di pesce in una città che aveva menu orientati principalmente alle carni. Qual è la rivoluzione che vi piacerebbe guidare o vedere nel prossimo futuro?
I miei genitori sono stati sicuramente più innovatori di noi, hanno avuto la lungimiranza e il coraggio di portare il pesce fresco a Bergamo, una città in cui fino a quel momento si mangiava solo il baccalà. Ce l’hanno fatta, è vero, ma quando nei primi anni vedevano la fila di clienti negli altri locali e il loro vuoto, non è stato facile. Oggi per noi la cosa più bella sarebbe quella di ingrandirci e di vedere crescere sempre di più il nostro marchio su vari fronti, non solo per quando riguarda la cucina gourmet. Abbiamo aperto una seconda linea che è il DaV, bistrot in cui proponiamo una cucina semplice e buona a prezzi contenuti. Poi ci sono i Da Vittorio Collection in cui sono presenti i nostri prodotti come i lievitati e i cioccolati che vorremmo sviluppare prima in Italia e poi nel mondo. Le prossime sfide sono queste.
La signora Bruna ha detto di vostro padre “Metteva la vita nel lavoro” che è un concetto molto diverso da mettere il lavoro nella vita. Come vede questa cosa?
Quando ero solo un ragazzo pensavo che mia madre e mio padre fossero due pazzi per quanto lavoravano e stavano al ristorante (ride, ndr). Poi noi siamo cresciuti e siamo diventati peggio di loro. Quando c’era mio padre, il giorno di chiusura era il mercoledì. Era una giornata sacra perché gli piaceva proprio passarla in famiglia anche se eravamo tanti e c’era sempre tanta confusione, ma mio padre godeva per questa vita familiare così caotica e spesso rumorosa. Oggi purtroppo abbiamo così tanto da fare che quel mercoledì non esiste più per noi. Facciamo delle mezze giornate di stacco, certo, ma abbiamo perso quel rituale. Per noi è vitale questo lavoro, mia madre stessa quando sta a casa da sola dopo un giorno è nervosa, vuole venire al ristorante.
I vostri iconici paccheri sono conservazione o rivoluzione?
Sono sicuramente parte della nostra tradizione. Una persona che viene a mangiare da noi però non deve pensare che ci sia solo il pacchero... c’è tanto studio, tanta ricerca, tanta sperimentazione che orbitano attorno ad altre preparazioni. Il cuoco gode a trovare nuovi prodotti, nuovi elementi e a proporre sempre nuovi piatti.
Sono passati ormai 4 anni all’inizio della pandemia, un periodo che ha parecchio mescolato le carte in vari settori. In quello gastronomico ci sono stati momenti molto bui, la carenza del personale, investimenti andati in fumo per molti. Quali sono i cambiamenti positivi e quelli negativi a seguito di questo periodo?
C’è una cosa che è positiva e negativa al tempo stesso. Le persone vogliono sempre più tempo per loro stesse. Per un verso è una cosa molto positiva per il benessere personale, ma è quello stesso benessere che viene compromesso quando non si hanno passioni a cui dedicarsi. Questo vale soprattutto per i giovani che spesso non trovano interesse in niente e la cosa mi dispiace tanto. Come in tutte le cose ci vorrebbe un equilibrio.