“Nasco dolce e adoro il dolce”. Parola di Paolo Griffa, volto e anima alla regia del ristorante che porta il suo nome al Caffè Nazionale di Aosta. Un luogo suggestivo, che il giovane chef ha plasmato a sua immagine e somiglianza, creando un vero e proprio concept restaurant, che riunisce in una sola location caffè, pasticceria e ristorante fine dining.
Griffa, che molti ricorderanno come primo finalista italiano di S.Pellegrino Young Chef Academy Competition nel 2015, inizia la sua carriera come pastry chef, per poi diventare chef. La sua arte culinaria risente della precisione e della cura estetica che caratterizza le opere dei più grandi maestri pasticcieri. Un approccio che ha consentito a lui e al suo staff di conquistare importanti riconoscimenti in poco tempo: dalla stella Michelin all’incoronazione come Bar dell’Anno 2024 per la Guida del Gambero Rosso, oltre al titolo di Pastry Chef dell’Anno conferito a Titti Traina, da oltre dieci anni compagna di vita e di lavoro al suo fianco.
Il connubio Natura e Arte è sempre al centro della proposta gastronomica di Paolo Griffa, con due percorsi che omaggiano rispettivamente il territorio e il bello, inteso come espressione della creatività umana a 360 gradi. Abbiamo assaggiato il nuovo Menu Arte e siamo rimasti folgorati dall’impatto estetico dei piatti, dalla cura maniacale di ogni dettaglio, dal lavoro manieristico di cesello, dalla tensione alla perfezione e, allo stesso tempo, dal gioco e dall’interattività, dal coinvolgimento dell’ospite nel corso di un servizio capace di mettere al centro il cliente e di farlo partecipare in maniera attiva e curiosa, come in una pièce teatrale, al gioco dell’alta cucina. Una modalità di intendere il fine dining che allontana decisamente il rischio di creare quel distacco che spesso, in passato, si è instaurato tra la gastronomia stellata e il pubblico. Griffa, al contrario, dimostra come si possa essere “alti”, nei riferimenti e nella tecnica, ma ugualmente ludici e di facile fruizione. Che sia questa svolta “fun” dining la chiave per affrontare il futuro della cucina d’autore?
Ecco che cosa ha raccontato Paolo Griffa a Fine Dining Lovers.
Is This Art? La tartare di cervo ispirata alla tela di Noah Taylor
Come nasce il Menu Arte?
Noi italiani abbiamo da sempre, in maniera innata, una passione per il bello. L’arte la applichiamo a 360 gradi al nostro menu: possiamo trarre ispirazione dalle installazioni o dalle opere pittoriche, così come dalle performance e dall’architettura. Abbiamo una cucina che è molto attenta all’estetica, ma mai secondaria al gusto. L’estetica vuole essere un veicolo per me: prima di mangiare vediamo un prodotto con gli occhi e, se ci piace, ci invoglia o ci incuriosisce; poi, passiamo alla fase gustativa, che deve essere altrettanto di livello, così come quella visiva.
Nel percorso ci sono riferimenti a personaggi poco noti ai più, come Richard Buckminster Fuller, il designer che ha inventato la cupola geodetica. La cucina, quindi, può essere un modo per avvicinare all’arte le persone?
È forse un connubio da “nerd” quello della matematica e della geometria, applicata alla scultura e all’architettura. Volevamo fare un omaggio all'architettura, ma le opzioni cui pensavamo erano sempre riferite nello specifico a un singolo edificio. Fuller, invece, ha lavorato su un concetto universale, che ha consentito all’architettura di svilupparsi: è riuscito a calcolare come costruire una cupola, perfettamente sferica, senza i contrafforti, risolvendo un problema di tutti. Ha calcolato lo scarico delle forze e ha fatto sì che tantissimi architetti potessero evolvere, applicare delle idee che prima erano impensabili: il piatto è un omaggio all’architettura e allo studio.
Lo gnocco di storione ispirato alla cupola geodetica di Fuller
Lei è anche pasticciere, membro di Ampi (Accademia Maestri Pasticcieri Italiani): quanta matematica e scienza c’è nell’arte dolce?
La pasticceria è chimica e fisica applicata, con matematica. Quindi l'aspetto scientifico è fondamentale, anche perché rappresenta la base nello studio del prodotto e delle applicazioni, per capire come interagiscono. Una volta che si conosce la materia prima, si può plasmare come si vuole: deve essere tutto studiato e calcolato, proprio perché sia riproducibile in continuo - per una, per dieci o per mille persone, sempre con lo stesso risultato - e non una cosa improvvisata.
Come interagisce l’arte dolce con il salato e viceversa nella sua cucina?
La pasticceria ha questo rigore, questa metrica, questa ripetizione, ma anche questa finezza dei dettagli e delle accortezze, così come anche la parte empirica della cucina, o comunque dell’istinto, delle cotture o delle finiture, dei condimenti, delle marinature o delle erbe. Queste ultime, in particolare, presentano tantissime variabili, per quanto tu le possa studiare. La matematica e la scienza, invece, consentono al pasticciere di calcolare tutte le variabili che si possono avere: è il connubio che cerchiamo di trasmettere - io e i miei ragazzi - e che applichiamo tutti i giorni, sia che si provenga dalla pasticceria sia che si provenga dalla cucina.
In percentuale, quanta arte, quante tecnica e quanta emozione c’è nel suo approccio?
Cambia a seconda del punto di vista, secondo me. Vissuto da noi operatori, emerge molto il concetto dello sviluppo e, all’inizio, è importante non porsi limiti: l’idea deve essere valida, si studia come renderla fattibile, come realizzarla concretamente, anche se può sembrare assurda. Deve esserci un modo per ottenere quel risultato: ecco allora che la tecnica è secondaria all’idea e al gusto che si vuole ottenere, quindi al risultato finale. Poi, si passa direttamente allo studio e allo sviluppo, che è molto interessante e stimolante. Vissuto dal cliente, invece, prevale la parte visiva, che risulta immersiva sin da subito e quindi spesso il piatto viene percepito in maniera diversa, come se il gusto venisse messo in secondo piano, ma in realtà va di pari passo all’estetica. Se un piatto è brutto spesso abbiamo un preconcetto su come sarà il suo gusto, mentre se una creazione è perfetta non notiamo se ci sono difetti. Se una cosa è bella e perfetta sembra finta: ma perché dovrebbe esserlo? È semplicemente una questione di esercizio stilistico, di precisione dell’artigianato. Pensiamo a quanti dettagli ci sono dietro un orologio, una macchina, un quadro… Quanto ci si è dovuti esercitare per ottenere quell’opera perfetta? E perché la cucina, per quanto effimera, non può raggiungere quei livelli di maniacalità, magari percepita come un plus?
Gli aperitivi: piccoli gioielli che applicano al salato le tecniche della pasticceria
Da cosa parte in genere per creare i piatti?
Di solito abbiamo cinque basi di partenza: dall’idea, dal voler ottenere un determinato gusto finale, dalla volontà di valorizzare un prodotto, dalla voglia di provare una nuova tecnologia che consente di ottenere un risultato, oppure dai viaggi. Magari ho acquisito una conoscenza, ho preso una spezia o mi sono ispirato a un abbinamento e voglio riprodurlo in cucina. Ci sono sempre partenze molto diverse, che poi in realtà si vanno a intersecare una con l’altra. Per esempio, si può partire da un ingrediente e poi si va pensare a quale macchinario usare per trattarlo, a quale gusto abbinarlo e così via: l’ispirazione può arrivare da qualunque cosa.
Un piatto che rappresenti il suo passato, uno per il suo presente e uno per il suo futuro?
Per il passato senza ombra di dubbio il Banana Splash: è stato un elemento di rottura, risale all’epoca in cui lavoravo al Piccolo Lago (come pastry chef e sous chef, ndr), dove lo chef Marco Sacco mi ha lasciato davvero carta bianca, di interpretare con la mia visione il mondo dei dessert. Da lì è partita la libertà di potermi esprimere, perché quel piatto andava a dissacrare tante composizioni classiche, sia di impiattamento sia di servizio e di gusto. Il presente? Sarebbe riduttivo scegliere un piatto, perché mi stufo in fretta e cambio spesso. Il piatto del futuro deve ancora nascere, ma sarà sicuramente migliore e non avrà i difetti delle creazioni attuali, di cui mi accorgerò più avanti. Quando riguardo i piatti che ho creato in passato, trovo sempre qualcosa che avrei potuto migliorare, ma non vado mai a modificarli: piuttosto, preferisco crearne altri ex novo.
La quiche di verdure ispirata ai fiori di Takashi Murakami
Oggi è chef e patron, ha vinto un bando del Comune di Aosta e ha ristrutturato completamente un’antica location, recuperando affreschi del 1200-1300, con un grande investimento: come vive questa condizione?
Quando si diventa patron si cambia mentalità: il primo focus non è più fare il piatto bello o spettacolarizzare l’abbinamento. Non hai più “la testa tra le nuvole”, ma i piedi sono saldamente ancorati a terra, con gli scadenzari fissi in mente: dal pagamento ai fornitori, ai dipendenti. Pensi anche all’idea di garantire uno spazio di lavoro sicuro e confortevole, e riuscire a far sì che anche i clienti lo percepiscano come una location che ha tanto da dare e che non li voglia “fregare”, dove tornare. Pensi a creare un luogo che è stato costruito per essere integrato nella città e nella sua quotidianità, per farlo diventare una meta per la parte gastronomica, ma anche per valorizzare ciò che ha da offrire la regione. Ci interessa molto raccontare i prodotti e i produttori della Valle d’Aosta, con un nostro sguardo. L’idea è che si crei una sinergia tra noi e la città: che il sito archeologico sia trainante tanto quanto la gastronomia e viceversa.
È un concept restaurant il suo: offre tanta diversificazione di proposta.
Questa è un’impostazione che arriva dall’hôtellerie: dopo 5 anni al Grand Hotel Royal & Golf, ho capito che la struttura ti coccola e ti deve guidare da quando ti svegli a quando vai a dormire, offrendo tantissime proposte, anche perché un bar a una fruizione molto settoriale - a colazione, dopo pranzo, all’aperitivo - ma anche per occupare i tempi morti, visto che uno spazio ha anche dei costi di mantenimento: la sfida è di riuscire a trovare la formula giusta per abbracciare ogni momento della giornata e un pubblico vasto. Chi viene a colazione magari non verrà a pranzo, ma si può essere stuzzicati dalle diverse proposte… Magari un giorno chi fa merenda al Caffè Nazionale lo ritroverò a cena: il lavoro all’interno della stessa azienda è molto sinergico, si possono vedere diverse sfaccettature della medesima attività. Dal catering agli eventi, sono tanti i modi in cui possiamo farci conoscere all’esterno: l’importante è la coerenza, del luogo dove siamo, dei prodotti utilizzati, della qualità.
Il raviolo aperto con ragout di cortile ispirato a Escher
A proposito di Valle d’Aosta, da 7 anni questa regione lo ha adottato: come vive il rapporto con il territorio?
Il rapporto deve essere costruito piano piano: con gli aostani e con il loro territorio stiamo creando un bel legame, così come con i clienti che arrivano da fuori (svizzeri, francesi, ma anche piemontesi). Si tratta di un legame che si basa molto sulla fiducia reciproca e sul passaparola, che è tuttora la forma di marketing più forte. Il consiglio di un amico o di un parente è quello fondamentale: noi non siamo per un pubblico di massa, ma per una clientela selezionata, e questo tipo di pubblico richiede anche più tempo per essere costruito. Preferisco così, però: meglio creare solide basi su cui incrementare lentamente l’attività, piuttosto che avere un boom iniziale che non lasci nulla di solido in mano.
La più grande difficoltà che ha incontrato e la sua più bella soddisfazione professionale?
Ci sono state tante difficoltà, a partire dal passaggio al Grand Hotel Royal & Golf di Courmayeur: quando siamo arrivati, c’era già una clientela abituata a un determinato servizio con un determinato standard, ma noi abbiamo rivoluzionato completamente tutto. I primi mesi sono stati i più difficili, dovendo costruire e conquistare una nostra clientela. La più grande soddisfazione è stata la prima stella Michelin, ottenuta nel 2019 al Petit Royal: ha confermato che il nostro lavoro e gli investimenti fatti dalla proprietà del Grand Hotel Royal & Golf andavano nella direzione giusta. Immensa soddisfazione anche quando ci siamo trasferiti ad Aosta, al Caffè Nazionale, dove ci hanno confermato la stella a pochi mesi dall’apertura. Vuol dire tanto, anche se non fai questo lavoro solo per la stella e hai la consapevolezza che non deve girare tutto attorno a quello, ma ti permette di avere l’autorevolezza di una guida esterna che ti fa capire che stai percorrendo la strada giusta, che hai imparato tanto nei ristoranti stellati dove hai lavorato e che stai applicando gli insegnamenti appresi nel modo corretto.
Il dolce: un vaso di cioccolato che viene rotto al tavolo, ispirato al vaso di Ai Weiwei
Come si vede tra dieci anni?
Spero di riuscire a creare un giusto bilanciamento sia per me sia per i dipendenti di una vita privata e di un lavoro: qui è sempre molto intensa l'attività, tendiamo a essere perfezionisti, ma ti aspetti che questa perfezione diventi naturale per noi, che non sia più uno sforzo, ma un divertimento che permetta di vivere il giusto balance, con una esistenza di "normalità". Anche per questo abbiamo scelto la Valle d’Aosta: una città come Milano o come Torino, come Firenze o come Roma, è sempre molto frenetica. Sono centri che ti chiedono molto e ti danno tanto. La Vallée, invece, è un po’ più “lenta” e tranquilla: ti dà col tempo, se ottieni la sua fiducia, ti consente di essere frenetico quando vuoi, ma anche di sparire nel nulla e rilassarti, magari andando in Val Ferret a fare foraging.
Nel mese di agosto verranno resi noti i finalisti regionali della nuova edizione della S.Pellegrino Young Chef Academy Competition: che consiglio vuole dare a un giovane chef per mettersi in gioco nella maniera più corretta?
La S.Pellegrino Young Chef Academy Competition è un concorso di confronto e di relazioni tra coetanei, che ora sono tanto motivati e hanno molto potenziale. Il mondo oggi è aperto: i giovani chef possono contattare ristoranti in tutto il mondo e fare esperienze, entrare in contatto con i guru internazionali della gastronomia. Allo stesso tempo, devono rimanere autentici e raccontare se stessi, la loro vita ed esperienza. Non devono copiare o essere finti, ma credere assolutamente in ciò che fanno, sentirselo loro. Questo è importante, perché quando si troveranno davanti alle difficoltà e alle emozioni del palco, durante il confronto con gli altri, dovranno essere tranquilli e sereni, raccontando la propria esperienza in modo naturale. Se invece è tutto costruito e forzato, si noterà: ecco perché bisogna presentare ciò che si sa fare, e nel modo più naturale possibile, parlando del territorio, di sé e delle proprie esperienze. Il concorso deve essere un momento di confronto e non di sfida: è fondamentale partecipare al meglio e ricavarne il meglio, in modo da rimanere in contatto con chi si conosce. Non è importante vincere, ma sentirsi parte della squadra, della famiglia che S.Pellegrino riesce a creare.
Tutte le foto interne sono di Paolo Picciotto