“Ho iniziato a lavorare che avevo due miliardi di debito, all’età di 16 anni e mezzo. So cosa significa affrontare una sfida in questo settore: è un mestiere duro quello della ristorazione”. Lo dice con molta consapevolezza e lucidità Francesco Panella, imprenditore e patron dell’Antica Pesa a Roma, il ristorante che la sua famiglia gestisce dal 1922, che oggi lo vede impegnato alla regia assieme al fratello chef, Simone Panella. La sua è una storia di passione e di grande devozione, che culmina con la popolarità e con un brand celebre a livello internazionale. Se oltreoceano si è fatto conoscere con Antica Pesa Brooklyn, spin off newyorkese che ha conquistato gli americani con i sapori della cucina romana, a suon di carbonara e cacio e pepe, in Italia è diventato anche un noto volto televisivo.
Sul Nove è andata in onda la nuova stagione di Little Big Italy, il programma dove indossa i panni del conduttore-giudice giramondo, a caccia dei migliori ristoranti italiani all’estero, mentre in radio ha appena esordito con Tutti a tavola, in programma ogni sabato su Rai Radio 1. Giovani, ristorazione, scelte di vita: Panella ci ha detto la sua su molti temi caldi, ma attenzione: non parlategli di ananas sulla pizza… Ecco che cosa ha raccontato a Fine Dining Lovers.
Nei viaggi di Little Big Italy, qual è la storia di cibo o la ricetta che più l’ha emozionata o colpito?
Sicuramente la genovese, perché è una di quelle ricette lunghe… ci vogliono ore per farla. E chi va ai fornelli a cucinare questa specialità, perché la vuole preparare e far assaggiare agli altri, è una persona che ha davvero tanta dedizione: sta lì ore e ore per far rivivere una ricetta pazzesca agli altri. La bellezza della genovese è proprio questa: c’è gente che si rimette in discussione e cucina a lungo, pur di dirti che quello è il piatto della vita per loro. È fantastico, soprattutto se pensiamo alle cucine dei ristoranti, dove va tutto sempre veloce.
E invece la città che l’ha sorpresa per la proposta gastronomica, che consiglierebbe di visitare a un food lover?
Lima, in Perù. Perché loro lavorano con la stratificazione terrestre, quasi tutti, prendendo spunto da quanto fa lo chef Virgilio Martinez al ristorante Central. Usano ingredienti che arrivano dal profondo dell'oceano fino alle cime delle Ande, per proporre una cucina che secondo me è straordinaria.
Tutti a tavola vede alternarsi voci di chef e di personaggi dello spettacolo. Oggi il cibo è sempre più fuso con il mondo dell’intrattenimento: scelta necessaria o evoluzione della cucina?
No, è semplicemente un punto di vista di altre persone che magari fino ad oggi non si sono mai espresse. Il tema è cercare di intercettarle e di metterle a loro agio per farle parlare. Ognuno di noi ha un gusto, una sensazione, una storia, una voglia da raccontare, quindi Tutti a tavola nasce solo per una questione - anche mia - di curiosità, di sapere quello che vogliono tanti amici. Vedo la trasmissione come degli amici che si raccontano, non come dei personaggi che sto intervistando.
In quale direzione sta andando il mondo della ristorazione, cosa cerca la gente oggi?
Non è tanto quello che cerca, ma quanto l'imprenditore o chi apre un ristorante deve fare affinché possa essere sostenibile su un mercato molto difficile. E non è un momento semplicissimo per la ristorazione, probabilmente il più difficile degli ultimi trent'anni. I motivi sono tanti, di sicuro per avere un ristorante oggi serve una cosa: sapere che si va incontro a un percorso di difficoltà seria, e questa consapevolezza la devi trasferire a tutto il tuo personale da subito. Il ristoratore è un mestiere difficile.
Quindi che cosa deve avere un locale per funzionare?
Affermazioni come “apriamo cinque giorni alla settimana” per me sono inaccettabili, perché al centro del progetto non ci siamo solo noi, ma c'è il cliente, che ti permette di stare aperto, e va rispettato. Non bisogna chiudere, bisogna assumere più persone, facendo capire allo staff perfettamente quali sono i sacrifici a cui si va incontro. Non è un mestiere facile, è un mestiere difficile. Il tema è che ci sono tanti ristoranti, forse troppi. Nessuno lo dice, lo dico io.
Oggi si fa fatica a trovare personale… Cosa risponde a chi dice che i giovani non vogliono più fare questo lavoro?
Si è mai messo al centro del discorso il personale? Si è mai creato un ponte che possa aiutare i ragazzi ad affrontare dei problemi, che magari sfiorano la ristorazione, come sostituirsi a loro, andare a parlare con una banca per un mutuo? Oppure sostenere i ragazzi psicologicamente? Si sono trovate delle tematiche affinché i ragazzi capiscano veramente che cosa è quel mestiere? A volte si tratta l’argomento con grande superficialità: va trovata una soluzione, ma bisogna andare un pochino più a fondo, per capire cosa sta realmente accadendo ai giovani. Perché non lo vogliono fare? Per i soldi e basta? Ci avete mai parlato? Si mettono i ragazzi in condizione di sognare?
Alcuni ristoranti hanno iniziato a chiudere più giorni a settimana, magari nel weekend…
La soluzione non è chiudere più giorni e lavorare meno. Il problema è il tempo perso che uno occupa per fare una cosa. Se io non lavoro perché in quei due giorni ho un hobby, un altro sogno da portare avanti, mi sta bene. Non per stare a casa a guardare YouTube, però. Si parla solo dei ragazzi che vogliono lavorare tre o quattro giorni, quando alla base di un ristorante c’è il sacrificio. Nessuno parla dei milioni di ragazzi in tutto il mondo che lavorano 6 o 7 giorni su 7, perché saranno loro a mandare avanti i ristoranti, e non quelli che lavorano tre giorni a settimana. I ragazzi che lavorano tutta la settimana, con impegno e dedizione, non hanno un'altra possibilità, molto probabilmente. Non possono scegliere di stare a casa. A loro, va tutta la mia ammirazione, la mia stima, il mio amore, il mio supporto.