Capo della brigata di Cracco Portofino, numerose esperienze nell’alta gastronomia italiana e una grande, infinita passione per questo lavoro: Mattia Pecis è certamente uno degli chef contemporanei più notevoli di questi anni.
Giovane, fresco e pieno di creatività, Pecis è nato (nel 1996) ed è cresciuto in Val Seriana dove ha iniziato il suo percorso proprio frequentando l’Istituto Alberghiero di Clusone. I suoi obiettivi sono molto chiari già dai primi stage ed è proprio il suo frizzante entusiasmo a portarlo dalla sua vallata alpina bergamasca fino al quel gioiellino del Tigullio che è Portofino.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Mattia Pecis e ci siamo resi conto che non c’è molta differenza tra lo chef e la persona. Queste due figure sono in effetti una sola, caratterizzata da passione, vivacità, gentilezza e determinazione. Ma se dovessimo riassumere la personalità (culinaria e non) di Pecis, la parola più azzeccata è senza alcun dubbio curiosità. Curiosità per la tradizione, per i piatti antichi e gli ingredienti di una volta, ma anche curiosità rivolta al nuovo, al futuro della cucina.
Ecco la nostra intervista a Mattia Pecis chef di Cracco Portofino.
Quando e come ha capito che voleva lavorare in cucina?
La passione per la cucina e il buon cibo l’ho ereditata da mia madre. Tutte le mattine della mia infanzia avevano il profumo del pane appena sfornato dal forno a legna, della torta fatta in casa tutti i giorni. Poi quando ero piccolo c’era la tendenza a dire “fai la scuola alberghiera così poi vai a lavorare nelle navi da crociera e giri tutto il mondo”. Non sono mai salito su una nave da crociera, ma è nato un sogno al quale ogni giorno aggiungo un pezzettino.
Quando si è avvicinato all’alta cucina?
Dopo lo stage fatto da Daniel Facen a Bergamo, 1 stella Michelin. Lì ho capito che le basi che mi aveva dato la scuola alberghiera era solo una parte della ristorazione, oltre c’era molto di più. In quel momento mi sono innamorato di questo lavoro, ho scoperto la creatività e ho capito che partendo dalle basi, dalla tradizione e dalla conoscenza degli ingredienti si potevano creare piatti strutturati, contemporanei, con una nuova vita.
Come definirebbe la sua cucina e il suo stile?
Prima di Cracco Portofino non avrei mai potuto parlare di “mio stile”, è qui che ho potuto esprimermi davvero per la prima volta. Carlo mi ha dato carta bianca su tutto e oggi posso dire che la mia cucina è leggera, naturale e con un concetto di vera sostenibilità. Qui cerchiamo davvero di fare del bene alla natura e al meraviglioso territorio che ci ospita. Abbiamo l’orto e ci forniamo dai pescatori locali, ma fare davvero alta cucina sostenibile è un discorso più complesso e strutturato. Cerchiamo di limitare al minimo l’uso della plastica, di consumare meno energia e anche di eliminare dal menu prodotti che non rispettano questa filosofia. Quelli che venivano definiti alimenti di “lusso” io qui non li ho mai usati. Per esempio non uso il caviale perché allevare un pesce 15 anni per poi ricavarne pochi grammi di uova non mi ispira concettualmente. Il nuovo lusso è fare conoscere ingredienti buoni, sani e allo stesso tempo veri. Valorizziamo tutte le parti del pesce, soprattutto quelle che prima venivano definite di scarto. Sappiamo tutto dei prodotti che acquistiamo e possiamo dunque permetterci di fare un paté di fegato di pesce. La cosa più difficile è far convivere questa sostenibilità con il nome che rappresentiamo e le aspettative che si porta dietro. Per fortuna i nostri clienti sono consapevoli e sempre più persone apprezzano questa filosofia.
Cosa si mangia oggi da Cracco Portofino?
Facciamo una cucina ligure. Abbiamo cercato antiche ricette del territorio che erano quasi dimenticate e le abbiamo riadattate alla nostra epoca e al nostro stile. Un esempio è la Pissaladière che è una sorta di torta salata di origini genovesi. Sono molto legato alla storia e ho fatto una serie di ricerche per scoprire che si tratta di una preparazione che ha circa seicento anni. Abbiamo voluto darle valore e ingigantirla dal punto di vista del gusto facendo un intreccio di acciughe locali, marinate e tagliate finissime, la trama che si ottiene ricorda la rete dei pescatori. Questo intreccio viene poi adagiato su una sfoglia di pasta brisé e all’interno troviamo tutti i caratteristici sapori delle classiche torte salate liguri, le biete, la cipolla caramellata, i pinoli. È un piatto antico che abbiamo reso molto elegante e lo si può trovare nel nostro menu degustazione.
Che opinione aveva di Carlo Cracco prima di conoscerlo?
Quando ho iniziato la scuola non sapevo chi fosse (ride, ndr), ma non sapevo niente neanche di alta cucina e di stelle Michelin. La prima volta che ho notato il suo nome stavo passando davanti ad una libreria e in vetrina c’era il suo libro Se vuoi fare il figo usa lo scalogno. Mi sono detto “Ma chi è questo qui? Non andrei mai a lavorare da lui”. Dopo un anno ero nella sua brigata.
E adesso?
Sono 7 anni che lavoro con Carlo Cracco. È la persona più appassionata a questo lavoro che io conosca, per me è un’ispirazione. Quando lui mi dice qualcosa, mi dà un giudizio o un consiglio, è incredibile ma ha sempre ragione. Da quando sono qui a Portofino mi è capitato di chiamarlo per chiedergli qualche consiglio e lui mi ha sempre svoltato la giornata con cose a cui io non avevo neanche mai pensato. La sua grande esperienza mi affascina moltissimo, tutto quello che dice ha un senso profondo e vero.
Non ha ancora trent’anni e ultimamente si parla parecchio della difficoltà di trovare personale giovane che voglia fare questo lavoro. Cosa ne pensa?
Su questo tema mi sono confrontato anche con altri colleghi e sono convinto che il nostro settore sia sempre stato duro da tanti punti di vista. Durante la pandemia tante persone si sono rese conto che non c’è solo il lavoro, ma anche il tempo personale. L’ho vissuto io stesso sulla mia pelle quando durante quel lungo periodo ho avuto modo di cenare con la mia famiglia dopo tanti anni. Quando la pandemia è finita tutti volevano di più: più soldi, più riposi, più tempo libero. Ma il mercato non era pronto a soddisfare tutto questo nel brevissimo periodo. Chi è rimasto è perché ci credeva tanto in questo lavoro e dopo un po’ quelle richieste sono state soddisfatte. Noi abbiamo aumentato tutti gli stipendi e tutti i riposi. Queste richieste erano e sono legittime, non possiamo parlare di sostenibilità alimentare, di orto a chilometro zero e di piccoli pescatori locali se poi ci sono persone che lavorano 18 ore al giorno senza mai riposare. Anche il valore umano delle persone è sostenibilità.
Ha cominciato Redzepi e a questo suo coro hanno partecipato in tanti. Molti hanno addirittura parlato di morte della cucina stellata. Come si posiziona su questo tema?
La cucina segue i periodi, cosa che accade anche con la moda ad esempio. Dieci anni fa si parlava solo di cucina molecolare, oggi non la fa quasi più nessuno. I trend sono ciclici, tempo ed evoluzione comportano dei cambiamenti e questo è sempre un bene. Gli appassionati sono sempre di più e questo lo dobbiamo anche all’espansione del web e ad un più facile e veloce reperimento di informazioni. Prima quasi nessuno andava nei ristoranti stellati, oggi invece ci sono tantissime persone curiose e informate. Secondo me l’alta cucina non morirà, cambierà e si evolverà con il tempo e con tutti i fattori ad esso collegati.
Che l’alta gastronomia sia per gli appassionati non v’è dubbio. Ma c’è qualcosa che vorrebbe dire in merito al fatto che non è vero che da uno stellato si esce affamati e che (quasi sempre) il conto è equilibrato rispetto alla qualità che si ha nel piatto?
È difficile abbattere gli stereotipi quando non c’è conoscenza. Se non provi, rimarrai con questo giudizio per tutta la vita. Bisognerebbe pensare ad una formula che coinvolga di più i giovani palati proponendo format di 4/5 portate a una cifra ragionevole e dare così l’opportunità di capire cosa c’è nel piatto e anche cosa c’è dietro le quinte di un ristorante di alta gastronomia. Noi qui ad esempio siamo 14 in cucina e circa 10 in sala, tutti tra i 19 e i 30 anni, quindi anche l’ambiente è ideale per sentirsi a proprio agio.
Parliamo di ingredienti. Ci sono ossessioni, preferenze o ingredienti che odia? E se sì, perché?
Non odio nessun ingrediente, ma non mi piacciono le cose trattate male. Preferisco gli alimenti che hanno un valore, se mangio qualcosa che è stato coltivato o allevato da qualcuno che ci mette cura e se quel qualcuno è retribuito correttamente per quel prodotto, allora sono contento.
Qual è l’ultimo ristorante in cui è andato come cliente?
Sono appena stato a Positano e ho cenato in una trattoria. Ho mangiato la parmigiana di melanzane, i fiori di zucchina fritti, la pizza. Quando vado a cena fuori mi piace andare nelle trattorie per sentire i sapori autentici delle ricette tradizionali, che poi sono sempre lo spunto per la mia creatività. Poi sono fan dell’accoglienza e dell’ospitalità, queste due cose sono la vera eccellenza italiana a mio parere.
Progetti per il futuro?
Io in questo momento sto molto bene. Mi piace il team in cui lavoro, quello che facciamo e l’ambiente che mi circonda. Ho capito qual è la mia strada e voglio proseguire su questa, voglio celebrare la cucina vera sotto tutti i punti di vista. Adesso sono qui, non so cosa mi riserveranno Carlo e il futuro.