C’è chi, dalla provincia, scappa alla prima occasione utile. Chi resta, accontentandosi, con la stessa attitudine di chi indossa una camicia troppo stretta. E poi c’è qualcuno che dopo aver girato l’Italia per imparare dai maestri, decide di ritornare in quel “territorio” che l’ha visto crescere per provare a essere una voce fuori dal coro.
È questo il caso di Alberto Buratti, chef nato nel 1987 in un paesino alle porte di Milano, che dal 2014 gestisce insieme a Davide Ceriotti il ristorante Koinè di Legnano (Milano).
Una zona, quella dell'Altomilanese, fortemente affascinata dalle mode del vicino capoluogo ma allo stesso tempo assuefatta ai menu di ristoranti-pizzerie e all-you-can-eat spuntati ovunque come funghi.
Ecco perché proporre proprio qui una cucina tradizionale ma contemporanea, frutto di tutte le esperienze raccolte e i viaggi fatti per il mondo, può rappresentare una vera sfida.
Iniziamo dal principio: quali sono stati i suoi primi passi in cucina?
A differenza di molti miei colleghi non posso vantare una grande tradizione di famiglia: fabbri da generazioni, mi hanno trasmesso l’amore per l’artigianalità più che quello per i fornelli. Mia mamma cucina pochissimo, mio papà mangia un po' di tutto e non ho mai avuto una nonna che mi preparasse pranzi speciali. E’ stato piuttosto il cuoco della colonia estiva a farmi capire quanto fosse bello soddisfare le persone – soprattutto i bambini, spesso molto diffidenti – attraverso il cibo: in quegli anni ho scelto di frequentare l’istituto alberghiero e deciso che questa sarebbe stata la mia professione.
Quali sono state le esperienze professionali più importanti?
Ad appena 16 anni, nel 2003, ho avuto l'occasione di lavorare nelle cucine dell'Hotel Villa d’Este a Cernobbio, sul lago di Como: una realtà che mi ha permesso di imparare subito come lavorare al meglio le materie prime, con un livello di professionalità utile a gettare le basi del mio lavoro futuro. Poi non posso non citare l’Antica Osteria del Ponte di Cassinetta di Lugagnano, dal maestro Ezio Santin, dove sono rimasto quasi tre anni: lì ci ho lasciato un pezzo di cuore, non solo per tutto quel che ho imparato. Era un ambiente dolce, raccolto: un angolo di Lombardia che per certi aspetti mi ha ricordato le zone da cui arrivavo io.
E poi ci sono gli anni nel miglior ristorante del mondo, l'Osteria Francescana.
Ho conosciuto Bottura nel 2006 e da allora l'ho letteralmente "inseguito" sperando si liberasse un posto per me in brigata. Per riuscire nel mio intento ho dovuto aspettare il 2010, quando Luca Lacalamita - allora in pasticceria - decise di andare in Spagna: all’epoca la filosofia della Francescana era quella di distruggere il confine tra dolce e salato, quindi cercavano un cuoco da inserire in pasticceria piuttosto che uno chef pasticcere. Negli anni passati a Cassinetta di Lugagnano ho avuto anche la possibilità di affiancare per sei mesi Maurizio Santin ai dolci: proprio grazie a questa esperienza mi hanno chiamato da Modena.
Cosa ha imparato da Massimo Bottura?
Dal punto di vista umano la gestione della brigata: sa di essere uno dei migliori chef al mondo, ma con il team ha sempre costruito un rapporto di autentica fiducia reciproca. Dal punto di vista della cucina, invece, la cosa bella della Francescana è il costante invito a sperimentare: a parte 15/20 preparazioni fondamentali non c’è un vero e proprio libro di ricette, è una cucina molto istintiva e fuori dagli schemi. Al punto che una volta mi sono preso una bella sgridata perché, dovendo preparare la gelatina di caffè, ho chiesto quanti grammi di zucchero dovessi usare: per Bottura non aveva senso parlare in grammi, la risposta era solo nell’assaggio e nel mio palato!
Dall’esperienza dello scorso anno con lo chef Eneko Atxa ha detto invece di aver imparato la “gastronomia viva”. Cosa significa?
Nei Paesi Baschi - il luogo dove secondo me si mangia meglio al mondo insieme alla Francia - il rapporto con il cibo è qualcosa di tanto importante e radicato che ci si sveglia la mattina pensando dove andare a pranzo: riempirsi la pancia non basta, si cerca sempre un'esperienza che lasci il segno. E poi al ristorante Azurmendi c'è un legame unico con i fornitori, agricoltori e coltivatori: un'attenzione che, per quanto possibile, ho cercato di portare con me anche al rientro in Italia.
Perché ha deciso di tornare nella "sua" provincia e tentare qui una nuova avventura?
E' inutile girarci intorno: questa è casa mia e avevo voglia di avvicinarmi agli affetti e alla famiglia. Oltre all'aspetto personale, però, c'era anche il desiderio di riempire il vuoto lasciato dalla cosiddetta cucina tradizionale: a parte qualche locale vecchio stampo a conduzione familiare, in quest'area l'offerta gastronomica è davvero limitata. Piuttosto che a mangiare bene, si punta a mangiare spendendo poco: una tendenza che voglio fare il possibile per cambiare.
Come definirebbe la cucina che propone?
Una cucina contemporanea, sicuramente ispirata alle nostre radici ma che tenga conto di tutti gli stimoli e le ispirazioni raccolte in giro per il mondo: giusto per fare un esempio, serviamo un panino al vapore ispirato a quelli serviti al Momofuku di New York, ma ripieno di bollito cotto a bassa temperatura. O ancora un dolce, che proponiamo fin dall'inizio, tutto a base di miele: un prodotto di queste zone che noi trasformiamo in un mou servito con un sorbetto al miele e un'aria ghiacciata al miele. In generale non amo le definizioni, sicuramente l'ispirazione arriva dalla tradizione ma le tecniche o gli abbinamenti di sapori sono completamente nuovi.
Si è mai pentito della sua scelta, magari rimpiangendo un locale a Milano?
A parte qualche caso eccezionale - penso a uno chef come Enrico Bartolini, che in poco tempo apre e conquista due stelle Michelin - credo che il panorama milanese sia davvero saturo: piuttosto che aprire a Milano me ne andrei a Londra o comunque in un contesto gastronomico e culturale completamente diverso. A chi mi dice che un ristorante a Legnano rappresenta un limite, rispondo che voglio farne invece il nostro punto di forza: non saranno certo questi 50 chilometri di distanza a fare la differenza, in più possiamo intercettare un target del tutto nuovo. Forse più "provinciale", ma sicuramente più interessante: fossero anche venti persone al giorno, per me è più che sufficiente.