Ana Roš ha 42 anni e cucina solo da quattordici. Nel suo passato non ci sono stage in prestigiose cucine internazionali, bensì un’adolescenza da sciatrice agonista e una laurea in Scienze internazionali e diplomatiche. Eppure la chef slovena appartiene ormai al gotha internazionale della cucina, appartenenza sancita dalla puntata che Chef's Table le ha dedicato nella seconda stagione, in cui tutto il mondo ha avuto modo di conoscere Hiša Franko, il ristorante sul confine italo-sloveno che guida insieme al marito Valter.
Ana si è trasferita in quella casa di campagna sperduta, nel mezzo della valle dell’Isonzo, per amore del marito, la cui famiglia gestiva l’agriturismo. “Eravamo giovani e ambiziosi. All’inizio, quando abbiamo preso in mano il ristorante, i clienti non capivano la nostra cucina e non tornavano più. Per mantenerci abbiamo fatto altri lavori: io traduzioni in un’azienda petrolifera, lui l’insegnante in una scuola alberghiera”. Completa autodidatta, ha sviluppato il suo talento con il caro vecchio metodo dei trials & errors: “Avevo tante buone idee ma mi mancava la conoscenza tecnica, stracuocevo, improvvisavo. Chiedevo pareri ai clienti e loro mi rispondevano solo 'È un piatto interessante': la cosa peggiore da sentire! Se sei intelligente però ascolti i consigli, provi, rifai. La cucina non è per la gente stupida”.
Abbiamo avuto modo di incontrarla a Tallinn durante Sauce 2016, dove ha preparato una cena utilizzando prodotti estoni.
I suoi piatti sono fortemente caratterizzati dalla relazione con il territorio sloveno. Come definire la sua cucina in absentia dei prodotti locali?
L’idea base è sempre quella del contrasto. Esistono due idee di armonia: piatti tutti sulla stessa linea, una “armonia delle armonie” di scuola francese o tedesca, e piatti dove l’armonia nasce dal contrasto, dall’unione di elementi discordanti. Sono quelli che piacciono a me: se esco al ristorante mi piace divertirmi e vorrei offrire la stessa cosa ai miei ospiti.
Lei non ha mai avuto veri e propri maestri. Quali sono stati i suoi maggiori ispiratori?
Forse Ferran Adrià. Io e mio marito siamo stati a El Bulli due volte. I gusti erano netti, belli, potevi assorbirli bene anche se - come me - non capivi niente di come fossero fatti. Quello era proprio il momento della cucina molecolare, tutti ti chiedevano 'Quanti additivi utilizzi?' ed era difficile rimanere se stessi, trovare un equilibrio: fuori c’erano le sperimentazioni con spume e textures, dentro la coscienza che faceva 'Toc toc!'.
Vista la sua esperienza, ritiene necessario per un giovane chef avere una formazione “canonica”?
No. La cosa più importante è esprimere se stesso, non cercare a ogni costo di piacere: esplorare da solo è difficile ma ti porta a trovare soluzioni fenomenali. Bisogna rimanere aperti a tutto e non smettere mai di imparare, io imparo ancora adesso dai miei stagisti.
Il suo è stato un inizio in salita.
Prima che prendessimo noi in mano il ristorante, il papà di Valter faceva un tipo di cucina per “i turisti della benzina”, come chiamavamo gli italiani che, per pagare meno, andavano a fare il pieno in Slovenia e poi spendevano i soldi risparmiati al ristorante. E pretendevano piatti come gli spaghetti allo scoglio o la pasta alle vongole … io volevo fare qualcosa di diverso. Nessuno con un minimo di coscienza può venire da me e pretendere la grigliata di pesce: noi abbiamo l’orso, l’agnello, il capriolo.
Quand’è che ha pensato “Ce l’ho fatta”?
Mai! Ci sono ancora giorni in cui mi guardo allo specchio e mi chiedo chi me l’ha fatto fare. Diciamo che è 5 anni che possiamo vivere di questo e reinvestire per migliorarci. Ora abbiamo gli ospiti giusti, viene gente con consapevolezza, motivata e interessata. È questo quello che volevo: non ho mai iniziato a cucinare per diventare una star o essere al centro dell’attenzione.
Quanto ha cambiato le cose Chef’s Table?
Il giorno prima della messa in onda, il 27 maggio, abbiamo scritto su una lavagna in cucina: “Oggi è ancora permesso sognare. Domani c’è Netflix!”. Sapevamo che avrebbe cambiato le cose, ma certo non immaginavamo così tanto. I primi giorni non ci sono state grosse novità, poi è iniziata una valanga: per capirci, le visite sul nostro sito sono passate da 200 a 10.000 al giorno. Ho dovuto trovare il modo di far fronte alla prenotazioni - abbiamo solo 40 coperti - senza pesare troppo sui ragazzi.
Che metodo ha utilizzato?
Tengo chiuso a pranzo ma apro 8 tavoli in pre-servizio. In questo modo accogliamo lo stesso numero di persone, ma diamo più tempo per riposarsi ai nostri ragazzi, e siamo passati a cinque giorni di apertura invece che sei. Inoltre, lasciamo quasi due mesi di vacanze all’anno e cerchiamo di creare condizioni di lavoro piacevoli - la musica, i pranzi in comune, il vino. Non so se sia la strada giusta, ma è quella che abbiamo trovato noi.
Esiste una cosa come la “cucina di confine”?
I popoli rispettano soprattutto i confini politici, non quelli geografici. Il mio territorio è un mix di cultura slava, austriaca, italiana, germanica. Conseguentemente è difficile definire la cucina tradizionale slovena, ma è sicuramente una delle più ricche del mondo.
Ha mai pensato di spostarsi?
Io appartengo alla campagna. Adesso c’è la moda del km 0, ma la campagna deve girare intorno a se stessa anche quando la moda andrà via. La città ha sempre avuto i negozi, i mercati, l’ispirazione globale; io ho i prodotti del mio territorio, una cosa tanto romantica quanto limitativa. Prima di partire ci hanno detto che quest’anno non c’erano funghi: avevo già costruito il mio menu autunnale sui funghi. La città invece dà ampiezza ed elasticità.
Dovremmo ridimensionare la retorica del km 0?
Decisamente. È tutto cominciato con lo stream scandinavo: ora in tutti i menu ci sono piatti grigliati, fermentati oppure bruciati. Ognuno dovrebbe cucinare la sua cucina, senza seguire mode uguali. Per me lo chef più interessante del pianeta è Massimo Bottura proprio perché ha seguito solo se stesso.
Una domanda quasi inevitabile. Cosa ne pensa del giustapporre sempre il termina donna a chef?
Sono contraria. Non aiutiamo l’emancipazione con tutti questi premi che dividono male e female. Un conto è separare i premi per attore e attrice al cinema, dove i ruoli da interpretare sono diverse, ma si è mai vista la stessa separazione in un’altra forma d’arte? Esistono i musei per i pittori e per le pittrici? Quest’anno ho avuto in cucina ragazzi che hanno mollato per i ritmi troppo duri, mentre le ragazze ce l’hanno fatta. Davanti al cliente siamo tutti uguali. E non ci sono scuse.