Pur essendo una certezza per molti milanesi - ed una clientela internazionale che lo apprezza dall'apertura - Il Liberty di Andrea Provenzani è un ristorante che, ancorato fortemente alla radici e alla tradizione, sa rinnovarsi e trasformarsi come pochi altri.
In viale Montegrappa, lo chef propone la sua idea di cucina che, anche quando serve classici della cucina italiana, non smette di essere un laboratorio. Un approccio da sempre concreto che, dopo il lockdown, lo è diventato ancor di più.
Abbiamo dunque pensato di fare due chiacchiere con lo chef Provenzani, per tirare le somme di questi ultimi anni, per analizzare insieme a lui la direzione che ha scelto e per riflettere sull'ultimo - a dir poco singolare - periodo.
Quando nasce Il Liberty?
Tutto è nato durante una cena con due amici, era il 2002. Con una buona dose di sfrontatezza da parte nostra e un po' di burocrazia in meno, stavamo realizzando un sogno: quello di avere un locale piccolo, intimo. Una trattoria moderna, come mi piace definire Il Liberty, in cui la cucina si fa laboratorio. Ho frequentato l'istituto alberghiero e poi il corso per sommelier e già da lì iniziò a prendere forma la mia idea di ristorante.
Come si è evoluta la cucina in questi anni?
La cucina è un prodotto vivo, libero, è parte di un percorso creativo circolare. È una cosa che bisognerebbe tenere ben presse poiché oggi è sempre più spesso influenzata dalle mode. Non c'è spazio per cose che non hanno senso. Io cerco nel mio piccolo di preservare la tradizione, che non significa restare immobili ma, al contrario, continuare a lavoraci con un approccio sempre attuale. In questo senso i miei piatti mi rappresentano molto, compresi quelli che nel tempo sono diventati iconici.
Un cambiamento che ha coinvolto anche la sala, con il cambio di look del 2016…
Sì, in quell'anno il ristorante ha subito un importante restyling. Avevo voglia di mischiare un po' le carte, di far diventare Il Liberty un luogo ancor più accogliente. Ora si presenta con un open space in cui stare bene, in cui le persone che lavorano guardano assieme nella stessa direzione, anche se hanno mansioni differenti.
La sala dei ristoranti è anche uno dei luoghi di cui si è maggiormente discusso con la fine del lockdown. Come ha adattato la sua?
In realtà noi non abbiamo perso molti coperti con la ridistribuzione degli spazi. Abbiamo sempre cercato di ricreare un ambiente intimo per la clientela e quindi, con qualche accorgimento, siamo riusciti a ripartire.
Con la riapertura quali novità ha introdotto nel menu de Il Liberty?
Alla fine del lockdown l'approvvigionamento delle materie prime non era così facile e scontato. Inoltre il personale è in cassa integrazione. Ho iniziato con un menu alla carta composto da tre antipasti, tre primi e tre secondi, che con il passare delle settimane sono diventati quattro e poi cinque. Ho anche introdotto un menu degustazione dedicato alla Sicilia, in cui i protagonisti sono il tonno e i vini dell'isola. È composto da cinque portate, incluso il dessert. Ho avuto un riscontro davvero buono dal pubblico, che mai come in questo periodo va sollecitato.
Come definirebbe la cucina di Andrea Provenzani oggi?
Ispirata dalla tradizione e dal territorio. Conosco bene l'Italia ma non smette mai di stupirmi, di appassionarmi, di farmi scoprire cose nuove. C'è poi nella mia cucina molto istinto. Metto anche molta cura nell'aspetto dei miei piatti ma se dovessi lanciare uno slogan direi "più pancia e meno estetica".
Come vede l’abbinamento tra cucina e superalcolici?
Dove c'è la possibilità di godere, di star bene, io non voglio porre limiti. Il pairing con il solo vino è certamente importante ma oggi forse limitante. Ci sono prodotti di grande qualità tra le birre, i drink, i soft drink... È anche una visione imprenditoriale: i ristoranti hanno spesso bellissimi angoli bar che restano vuoti e sarebbe invece meglio che venissero utilizzati sempre, non soltanto all'inizio o alla fine di un pasto.
Un piatto in carta che la rappresenta e perché?
Ne cito tre, per ragioni diverse. La mia Parmigiana innanzitutto. In un'intervista di qualche anno fa, in uno strano lapsus dissi "non è buona perché è sana, è buona perché è parmigiana". In qualche modo da quella parole traspariva una verità: è il suo sapore familiare, comune a tutti noi, a renderla speciale. Poi, per amore nei confronti di mia madre, citerei i Cappelletti ferraresi, con il loro ripieno ed una sfoglia stratosferica. In ultimo la Tarte tatin di pomodori, un piatto nato cinque anni fa che ha riscosso successo e che ogni anno propongo in modo un po' differente. Ora è in carta con un carpaccio di gambero rosso e zeste di limone.