Dal 2014 nella cucina del 28 posti, uno dei ristoranti di Milano più apprezzato dai foodies, Marco Ambrosino è nato nel 1984 a Procida. Dopo aver lavorato al Melograno di Ischia, nella stagione della stella Michelin di Libera Iovine, è passato dal Noma di Copenaghen. Entrambe esperienze - in qualche modo complementari - che hanno influenzato fortemente il suo approccio ai fornelli.
Qui, tra una ricerca continua e nuovi progetti, lo chef si racconta a Fine Dining Lovers.
Quando è nata la sua passione per la cucina?
Credo che si sia formata a poco a poco. Ho cominciato giovanissimo a lavorare nella ristorazione per divertimento. Venendo da un isola turistica, il periodo estivo lo si passava a dare una mano nei ristoranti. Col passare del tempo è aumentato l’interesse e la consapevolezza, fino ad arrivare alla decisione di lasciare gli studi in Economia per dedicarmi a tempo pieno alla cucina. Grande merito a mia madre e alle mie nonne, che hanno sempre cucinato benissimo e mi hanno educato al buono.
Com'è stata quindi la sua prima esperienza ai fornelli?
Avevo quattordici anni, cominciai a lavorare nel ristorante di un amico. Eravamo tutti ragazzi che si frequentavano anche al di fuori del lavoro, io davo una mano al lavaggio, gli altri stavano in sala. Ci divertivamo come fossimo al luna park. Due anni dopo avvenne il vero e proprio battesimo del fuoco: mio zio rilevò un'attività e, per una serie di casualità, mi trovai da solo ai fornelli con una sala piena. Non credo fu una serata memorabile per gli ospiti ma probabilmente fu proprio lì che decisi di voler fare il cuoco.
C’è qualcuno che considera il suo maestro?
Ho incontrato tante persone nel mio percorso professionale che hanno contribuito a formarmi, dagli anni a Procida fino all’esperienza in Danimarca. Sicuramente mi sento di citare Libera Iovine, che mi ha fatto conoscere la grande cucina e insegnato molto sulla materia prima.
Come definirebbe la sua filosofia in cucina?
Da 28 posti cerchiamo di raccontare attraverso le tante storie del Mediterraneo la cucina che verrà. Sono convinto si possa parlare di cucina mediterranea senza dover necessariamente inciampare nei soliti aspetti caricaturali. La nuova cucina mediterranea è una realtà che abbraccia tutto il bacino di questo mare, sempre più al centro del dibattito che si crea attorno al cibo.

Come la riassumerebbe dunque in tre aggettivi?
Mediterranea, contemporanea, di prossimità
Quando è arrivato da 28 Posti, indirizzo meneghino che fin dall'inizio ha fatto molto parlare di sé?
Il 28 posti nasce nel 2013 dall’idea di Silvia Orazi e Gaetano Berni di costruire un'attività commerciale che raccontasse le esperienze di cooperazione che li coinvolgevano. Esperienze quali il lavoro negli slum in Kenya e nel laboratorio di falegnameria del carcere di Bollate hanno fortemente caratterizzato la nascita del ristorante. Io arrivai l’anno successivo. C'è una spiccata componente sociale, per lavorare in un contesto così fortemente caratterizzato bisogna sposare questi temi.
Nel suo percorso in questo ristorante ritiene ci si sia stata un’evoluzione?
Sì, c’è stata una grande evoluzione. Costruire la propria personalità in cucina è un lavoro lungo, di cesellatura, bisogna riuscire a guardarsi da diversi punti di vista, osservarsi anche dall'esterno con la maggiore oggettività possibile. I passaggi fondamentali sono sicuramente stati segnati, di volta in volta, da momenti di difficoltà. Sono quelli, una volta superati, a portare risultati inattesi.
Quali sono gli ingredienti che più ama cucinare?
Amo i vegetali, le erbe aromatiche e le spezie. Sono sicuramente il tratto distintivo del mio lavoro. Altro mio ingrediente feticcio è la pasta secca. Riuscire ad approcciarci in maniera nuova, laterale e relativa a questi ed altri prodotti ci regala sempre grande soddisfazione. Basti pensare che in questo momento ci stiamo producendo anche il vino.
Un piatto che la rappresenta più di tutti gli altri?
Direi due piatti: il primo è la Chiajozza, un piatto nostalgico che racconta l'isola di Procida, quindi le mie origini; l'altro piatto è lo Spaghettino con acqua di pasta fermentata, che rappresenta l’essenza della mia filosofia di cucina e che, con grande soddisfazione, mi ha spalancato le porte verso un modo nuovo di intendere la pasta.

Che rapporto ha con la sua brigata?
Ho un gruppo di collaboratori incredibile, lavorano con me da quattro anni, che nel mondo della cucina è come parlare di ere geologiche. Siamo cresciuti professionalmente insieme. Trovare persone che condividono un punto di vista completamente nuovo, fuori dalle mode e dagli schemi, non è cosa semplice. Quando accade te le tieni strette.
Ha dato vita anche a Collettivo Mediterraneo. In cosa consiste questo progetto culturale?
Tre anni fa, assieme a mia moglie, decisi di mettere a disposizione di tutti i nostri studi sul Mediterraneo. Cominciammo a lavorarci assiduamente e nell’ottobre del 2019 nacque ufficialmente il collettivo, che ha già raccolto tante adesioni spontanee di cuochi, giornalisti, antropologi, architetti, divulgatori, artisti e tutti coloro che si riconoscono negli ideali del gruppo: creare un'identità mediterranea forte, consapevole, autorevole, che parta proprio dal racconto dell’altro, del diverso. Trasformiamo in valore aggiunto quello che troppo spesso viene raccontato come limite.