Il cibo è cultura, ma può rappresentare anche inclusione, partecipazione, scambio e gesto sociale. Nei mesi scorsi vi abbiamo raccontato le iniziative degli chef, le alleanze e le azioni di un intero comparto che si è unito per affrontare l’emergenza. E oggi, più che mai, ci accorgiamo di quanto sia importante il valore della condivisione per comprendere meglio il presente e affrontare con maggiore consapevolezza il futuro.
Nascono così - e sono sempre di più - i collettivi gastronomici, realtà interessanti che raggruppano attori e interpreti del settore: veri e propri movimenti culturali, che traducono il “sentire contemporaneo” in azioni e riflessioni legate al cibo e non solo, con un approccio multidisciplinare, decisamente aperto e profondamente creativo.
Sapete, per esempio, perché un antico precetto marinaresco vietava alle navi di portare a bordo donne, preti e ceci? Lo scoprirete più avanti, grazie alle ricerche di Marco Ambrosino, chef di 28 Posti a Milano, originario di Procida e fondatore del Collettivo Mediterraneo.
"Il Collettivo è un progetto di inclusione sociale e culturale, si propone di raccontare la multiculturalità del bacino che ci ospita, la biodiversità, le esperienze di donne e uomini che hanno costruito la nostra storia come abitanti del Mediterraneo”, si legge sul Manifesto pubblicato sul sito ufficiale, che viene periodicamente aggiornato con contributi e approfondimenti tematici.
Al momento fanno parte del Collettivo Mediterraneo circa trenta persone: non solo chef, ma anche architetti, musicisti, fotografi, che contribuiscono a creare una visione nuova e condivisa del Mediterraneo.
Scoprite con noi tutti i dettagli su questa giovane e interessante realtà culturale, cui tutti possono prendere parte, dando il proprio contributo.
Il Collettivo Mediterraneo e la “maieutica dei popoli”
Il Collettivo Mediterraneo è ufficialmente nato lo scorso ottobre (vi avevamo anticipato qualcosa qui, in occasione di LSDM 2019). “La storia delle tradizioni gastronomiche e delle sue avanguardie è la storia dell’umanità e noi crediamo nell’umanità. Principi fondamentali del collettivo sono la condivisione, la divulgazione, il dialogo e il confronto”, si legge sempre sul Manifesto.
Cosa ha spinto lo chef Ambrosino alla sua fondazione? “È maturata la convinzione che tutte le mie ricerche legate all’interesse personale riguardante la cucina e altri temi come il sociale potevano essere messe a disposizione di tutti, in maniera libera”, risponde.
“Inoltre - prosegue lo chef - penso che ci sia un’interconnessione enorme tra popoli apparentemente distanti, quelli del Mediterraneo, che in realtà hanno legami incredibili: per esempio, troviamo ricette spagnole nella cucina triestina. Abbiamo chiamato questa interconnessione speciale la “maieutica dei popoli”: far dialogare popoli che non hanno niente in comune apparentemente, ma che in realtà condividono dei legami, a partire proprio dalla gastronomia”.
Si tratta di un presupposto molto importante, come spiega Ambrosino. “Riuscire a far dialogare sistemi distanti che attraverso lo scambio scoprono legami e affinità significa che non può nascere un conflitto tra un popolo e l’altro. Poi, nel nostro mestiere di cuochi, non possiamo precluderci nulla, avendo le risorse da cui attingere”.
Fondamentale, il superamento dei cliché legati alla cucina mediterranea per approfondire aspetti storici, forse meno noti, ma estremamente intriganti e significativi. “Spesso si è parlato della cucina mediterranea in termini stereotipati, come pomodorino e basilico, che sono prodotti recenti dal punto di vista biologico. Ma sappiamo che c’è molto di più da raccontare, e nel mondo della cucina è necessario far diventare di moda queste tematiche: non possiamo ricondurre il Mediterraneo italiano solo a pomodorino e basilico”.
Con questi presupposti, il Mediterraneo diventa fonte d’ispirazione per il racconto antropologico di un piatto. Per capire il valore aggiunto di una ricerca gastronomico-culturale condotta in questa prospettiva, possiamo prendere a esempio un piatto di Marco Ambrosino: Spaghettini, salsa di pasta fermentata e ceci neri.
Una creazione che lo chef introduce con un racconto affascinante, che prende in considerazione la storia del cibo nel Mediterraneo come incrocio continuo di necessità e di ingegno, di devozione e di scaramanzia, ma anche di partenze e di gente che resta. Un piatto che celebra un alimento di sussistenza, ma anche la necessità recuperare gli scarti e di ricorrere alla conservazione del cibo per affrontare i momenti di carenza di determinati prodotti, grazie a tecniche quali il sottolio, il sottaceto e la fermentazione in acqua di mare.
“Un piatto nato due anni fa, altamente emblematico: la pasta di semola di grano duro è una nostra caratteristica, che qui è trattata in maniera dissacrante. La sfida? Fare un vino di pasta, dove vengono semplificati gli zuccheri, usando gli scarti di pasta. La provocazione? Se lo scarto può diventare un valore aggiunto, facciamo un salto al contrario: l’alta ristorazione può non solo produrre scarti, ma ha i mezzi professionali e di studio per far diventare valore aggiunto un prodotto che è scarto”, spiega lo chef.
Ma il racconto di questo piatto di ispirazione mediterranea non si ferma qui. Così, un (apparentemente) semplice piatto di pasta rievoca la storia di un antico precetto marinaresco che diceva di non portare a bordo preti, donne e ceci. “Se per le prime due categorie possiamo lanciarci in un’interpretazione varia, per il legume dobbiamo rifarci ai libri di storia”, spiega Ambrosino. “Il precetto risale al 1284, quando si combattè la battaglia della Meloria tra la Repubblica marinara di Genova e quella di Pisa: i genovesi sequestrarono la truppa pisana, ma i prigionieri riuscirono a sopravvivere: le stive infatti erano piene di ceci che, inzuppati di acqua di mare, riuscirono a sfamare i pisani”.
Leggenda o no (molti fanno risalire a questo episodio bellico l’origine della farinata ligure, un tempo chiamata “l’Oro di Pisa”), il valore aggiunto di un piatto concepito in questi termini è proprio il suo racconto denso di significato.
Il Collettivo Mediterraneo, i suoi protagonisti e l’approccio multidisciplinare
Ma che significato viene ad assumere un collettivo nel 2020, in un’epoca in cui la società viene definita “liquida”, spesso dominata dall’individualismo? “C’è una questione di formazione e sensibilità personale che mi ha portato a scegliere il nome “collettivo”. E poi penso che siamo stati individualisti pure quando non serviva esserlo. Anche in questa situazione attuale, compromessa dal Covid, bisogna fare gioco comune, altrimenti non ne usciamo dalla pandemia. Mettere in un circuito, a disposizione di tutti, i miei pensieri e le mie ricerche ha un senso: se so che ho una risorsa e la rendo accessibile a tutti, le conferisco un valore esponenziale. L’idea è di riuscire a mettere in connessione le persone tra di loro, ma anche di contribuire con idee e ricerche, riuscendo a mettere insieme tante cose”, risponde lo chef.
Nel Collettivo Mediterraneo, infatti, non a caso Ambrosino ha coinvolto e accolto professionalità diverse, affinché i contributi provenissero non per forza e non soltanto dal mondo del food. Ecco allora il musicista Osvaldo Di Dio, l’architetto Simona Castagliuolo (sua moglie e co-fondatrice del collettivo, originaria di Ischia), il fotoreporter Vittorio Sciosia, per citarne alcuni.
Personaggi cui si affiancano nomi di chef che vanno da Davide Guidara del Sum di Catania a Tommaso Tonioni di Achilli al Parlamento (già finalista di S.Pellegrino Young Chef), da Fabio Tammaro, chef e patron dell’Officina dei Sapori a Verona, di origini campane - “L’ho contattato io, perché ha una grande conoscenza del mare e dei pesci, e scrive sempre cose molto utili”, dice Ambrosino - al ligure Marco Visciola del ristorante Il Marin, affacciato sul Porto Antico di Genova, oltre allo chef pugliese Antonio Bufi.
Perché è importante che l’approccio del collettivo sia multidisciplinare? “C’è una questione di ampiezza dei messaggi che si riescono a veicolare, in primis. E poi tanti elementi hanno delle origini distanti, che poi si concretizzano in determinati processi e prodotti, e si manifestano in vari ambiti: nella cucina, nella religione, nella musica e così via. Questa ampiezza dei messaggi serve da un lato a raccontare meglio ciò che è stato il Mediterraneo, dall’altro lato amplifica il bacino di persone che ascoltano e riescono a sapere, ad accedere alla conoscenza”, commenta Ambrosino.
Così, sul sito del Collettivo Mediterraneo si spazia dall’approfondimento sulle farine di sussistenza a cura di Valeria Margherita Mosca al focus sulla Sicilia, sui suoi sapori e le origini arabe di Guidara, dal tema delle frattaglie del Mar Mediterraneo affrontato da Livio Improta alla musica del Mediterraneo, raccontata da Di Dio.
“Presto approfondiremo anche il tema della musica nomade, mentre mia moglie, dal punto di vista architettonico, sta raccogliendo una serie di testimonianze per fare una sorta di abbecedario della forma, la forma mediterranea, l’origine di una serie di tratti che si ritrovano nelle maioliche e nella costruzione delle città”, ci anticipa Ambrosino.
Le buone pratiche per salvare il Mare Nostrum e i progetti futuri del Collettivo Mediterraneo
“La salvaguardia dei mari e del suolo, la promozione della pesca etica, dei produttori, degli allevamenti e dell’agricoltura sostenibile, la divulgazione delle culture del Mediterraneo, saranno temi centrali del Collettivo. Il veicolo di questo racconto sarà il mondo della cucina e del cibo tramite i suoi interpreti, narratori e osservatori”, si legge sul Manifesto.
Una dichiarazione di intenti che trova un riscontro nella realtà. “La buona pratica è cominciare a considerare il Mediterraneo non come prodotto da cogliere, ma come risorsa che dobbiamo curare, in quanto tale. Il Mediterraneo continuerà a essere una risorsa se la curiamo”, commenta Ambrosino. “Spesso viene associato automaticamente a cose non positive, mentre se cominciamo a capire che le condizioni metereologiche di questo bacino sono insuperabili se riusciamo a prendercene cura, avremo sempre una risorsa. E chi più di noi chef - che facciamo questo lavoro e che trattiamo una materia viva - ha interesse a mantenere qualità e varietà di prodotto? La nostra professionalità emerge quando riusciamo a valorizzare come risorsa un prodotto con una micro stagionalità, che per esempio c’è solo per 15 giorni, riuscendo a usarlo in cinque modi diversi”.
Mediterraneo significa anche storia, racconto e memoria, come ricorda lo chef. “Il Mediterraneo non è né un bel balcone su cui affacciarsi né pomodoro e basilico: sono tutti aspetti che devono essere raccontati in maniera chiara e diversa. È una questione di memoria: quanti cuochi oggi fanno i piatti della nonna? Se ci pensiamo, i Paesi del Nord hanno costruito una cultura su ciò che non hanno, noi invece siamo pieni di prodotti”, spiega.
Progetti futuri? "Stiamo lavorando a una pubblicazione e a una serie di eventi. In primavera - ci spiega Ambrosino - si sarebbero dovute tenere delle cene, Le Tavole di Confine, che avrebbero dovuto coinvolgere anche degli chef provenienti da altri Paesi. C'è la probabilità che organizzeremo qualcosa a Genova a settembre, al ristorante Il Marin: un appuntamento per parlare dei temi del Collettivo, ma anche per incontrarci. Questo progetto ha fatto da aggregatore a distanza, soprattutto negli ultimi mesi, è stato davvero una risorsa. Il gruppo è molto ampio ed è in continua crescita: non c’è un modulo di partecipazione, ma si partecipa ai temi, molte persone mi scrivono o mi mandano del materiale che viene pubblicato sul sito".
Un Collettivo per guardare il Mediterraneo da una nuova, diversa e affascinante prospettiva. Ma soprattutto, un progetto che vuole avere, prima ancora che uno spazio fisico, un ruolo di connessione tra persone e temi. Un bisogno che oggi, tutti, sentiamo più che mai.