“Sono nata in mezzo al vino, ne respiro il profumo sin da bambina”. È una passione ancestrale quella che anima Alessandra Veronesi. Sommelier di lungo corso, originaria di Verona, vanta esperienze importanti che l’hanno portata a girare l’Italia e non solo, dagli hotel cinque stelle lusso ai ristoranti stellati. Oltre a una profonda conoscenza enologica, ha garbo e savoir faire: caratteristiche indispensabili per gestire al meglio e in maniera intelligente la sala e il racconto di Bacco. Attualmente è in forza nel Gruppo Enrico Bartolini. “Ho appena concluso un periodo da wine director a La Trattoria Enrico Bartolini, una stella Michelin presso L’Andana Resort a Castiglione della Pescaia, in Maremma. Ora continuerò il mio percorso all’interno della galassia Bartolini: stiamo lavorando a un nuovo progetto che partirà il prossimo anno”, racconta. Ma come si diventa sommelier? Questa e tante altre risposte nella nostra intervista a Alessandra Veronesi.
Foto Studio Fotografico New Art Photo
Ci spiega qual è stato il suo percorso?
Nasco in una famiglia veronese proprietaria di un'enoteca in provincia di Verona: per me parlare di vino era come respirare, ecco perché ho deciso di intraprendere questo percorso, nonostante alle superiori io abbia frequentato una scuola che non ha nulla a che fare con l’ospitalità (come l’alberghiero), ma un indirizzo che prevedeva contabilità e lingue. Mentre frequentavo la scuola, aiutavo i miei nell’osteria di famiglia, La Cantina. Ho cominciato a respirare l'aria del vino da mia zia Giuseppina, che oggi ha 82 anni, e che mi ha cresciuta: lavoravo, andavo a scuola e d’estate facevo gli stage. Oltre a mia zia, una persona che all’epoca mi insegnò molto fu Severino Barzan, allora proprietario della Bottega del Vin di Verona, assieme a un socio, Gianni Pascucci: è stata una grandissima palestra, ho fatto anche degli stage estivi con loro, sono stata negli Stati Uniti. Poi sono andata al ristorante Arquade, dentro Villa del Quar, in Valpolicella, che all'epoca era un due stelle Michelin con Bruno Barbieri. Poi ho lavorato all’Antico Caffè Dante a Verona. Finché non mi hanno chiamato per andare a lavorare all’Hotel Principe di Savoia a Milano e prendere il posto di Michele Garbuio, che andava via. Era il 2010, c'erano ancora poche donne sommelier: Michele e la direzione dell’hotel, sotto il signor Indiani, non avevano problemi ad assumere una donna, ma all’epoca molti avevano dei pregiudizi e non era scontato per tutti. Nel cinque stelle lusso meneghino sono stata nove anni, passando da sommelier a wine director, a restaurant manager. Poi, nel 2019, sono andata a lavorare da Cracco, che aveva aperto Carlo e Camilla in Duomo, lo scorso anno ho fatto la stagione al ristorante Horus a Sanremo, che aveva preso in gestione Bartolini, quindi sono approdata a L’Andana, sempre del Gruppo Bartolini.
Ha frequentato anche delle scuole o dei corsi professionalizzanti?
A 16 anni, mentre lavoravo ancora nell’osteria di famiglia e andavo a scuola, ho fatto il primo corso dell’Onav: ero minorenne, quindi i miei genitori hanno dovuto firmare il permesso perché potessi assaggiare il vino. Poi, ho seguito anche dei corsi di barman con l’Aibes e ho frequentato un corso di buone maniere in una costola di Alto Palato, dove ho imparato come si prepara la tavola e tutto quello che riguarda il bon ton. Successivamente, ho frequentato il corso ufficiale dell’Ais: primo, secondo e terzo livello. Era la fine degli anni ‘90 e c’erano solo 5 donne su 108 iscritti al corso. Ricordo che dopo tre anni, alla fine dei tre corsi, siamo arrivati in fondo in circa 30, di cui 2 donne. All’epoca Ais era l'unico corso riconosciuto anche all’estero.
Quali sono oggi le strade da intraprendere per chi vuole diventare sommelier?
Innanzitutto ci vuole tanta passione, una buona dialettica, parlare almeno una lingua straniera, frequentare una buona scuola (non per forza l'alberghiero, perché purtroppo non sviluppa la sommellerie), magari seguire un corso di Alma. Oppure, ci sono i corsi di Ais, Fisar, Fis: tutte federazioni di sommelier italiane, diverse, ma che funzionano allo stesso modo: tre anni, tre livelli, esame finale da professionista. E poi c’è WSET, che è una federazione internazionale, con corsi in lingua inglese (i primi step si possono fare anche non in presenza): ha regole diverse e più livelli. Più cultura hai, più curioso sei e più bravo diventi: ti accorgi che non smetti mai di imparare perché c’è tutto un mondo da scoprire. E questa è una delle filosofie che mi piace molto (e che condivido) dello chef Enrico Bartolini, con cui sto lavorando.
Una volta che si acquisisce il titolo di sommelier, quali sono gli sbocchi lavorativi?
Oltre a lavorare come sommelier in un ristorante, puoi fare il consulente per le catene, per la grande distribuzione nei supermercati, puoi creare carte dei vini per clienti privati, che magari hanno la possibilità di fare grandi investimenti e vogliono che un esperto indichi una serie di vini da provare. Ancora, si può diventare Food & Beverage manager in strutture alberghiere, direttore di sala, che un’infarinatura di vino deve averla per forza, ma anche di prodotti liquidi nervini (tè, caffè, bevande alcoliche e analcoliche), esperto di fermentazioni. Io, per esempio, sono anche idrosommelier, ossia sommelier delle acque, e ho seguito dei corsi sui rifermentati in bottiglia come il sake.
Quali caratteristiche bisogna avere per riuscire nella professione?
Tanta voglia di imparare, passione, curiosità, umiltà: più umile sei e più ti insegnano. Se non sei umile, non hai nemmeno curiosità, perché dai per scontato che sai già tutto. Devo dire che se sei nato in zona di vini, per esempio in Piemonte, in Toscana o in Valpolicella, come me, è quasi più facile: il vino fa parte della tua cultura. Gli assaggi e le degustazioni te le porti dentro sin da giovane, si cresce in mezzo all’uva e ai suoi profumi.
Qual è la difficoltà più grande che si riscontra facendo questo lavoro?
Io non ho mai avuto particolari difficoltà. Adesso c’è molta meno reticenza verso le donne del vino, ma fino a qualche anno fa non incontravi tanti colleghi del settore che ti prendessero sul serio. Ecco, la principale difficoltà potrebbe essere individuata proprio nel trovare il giusto contesto lavorativo. Tra le esperienze negative che ricordo, mi è stato detto, a un colloquio per la posizione di sommelier, “Lei è troppo preparata: non deve entrare nel merito del beverage cost” (dopo, infatti, non mi hanno preso). E ancora, a un colloquio mi hanno chiesto se avevo intenzione di sposarmi e fare dei figli.
Qual è il pregiudizio più grande che ha incontrato come donna sommelier?
In generale, quello del sommelier è stato sempre considerato un lavoro maschile, mentre oggi ci sono molte più donne sommelier rispetto a un tempo. Mi vengono in mente tante donne tra i 25 e i 40 anni tra le top sommelier d’Italia: da Mara Vicelli, che fu la mia assistente al Principe di Savoia, a Jessica Rocchi al ristorante di Andrea Aprea a Milano, a Iris Romano dell’Enoteca al Bicerin di Milano, molto appassionata di vini naturali.
Quali sono i falsi miti della professione?
Che il cliente ha sempre ragione: invece non ha sempre ragione. Se dice che il vino sa di tappo e non è vero, al limite ti comporti così: non discuti, prendi la bottiglia e la cambi. Poi, dopo, si verifica e se, al contrario, non sa realmente di tappo, il vino non si butta e magari lo si vende alla mescita. Non stai mai a discutere al tavolo, anche perché è giusto che il cliente sia “padrone” del suo tavolo e si goda la serata, ma non è detto che abbia sempre ragione. Anche l’abbinamento vini bianchi con il pesce e vino rosso con la carne è un falso mito, assolutamente sorpassato. Per molto tempo, poi, si è creduto di non servire mai un vino spumante con il dessert… Ecco perché una volta si beveva solo il passito con i dolci, mentre oggi è tutto cambiato.
Come si degusta al meglio un vino: da cosa partiamo?
Per prima cosa, il vino si guarda quando si versa nel bicchiere (deve essere il calice giusto, importantissimo). Dopo averlo osservato, per dedurre dal colore l’età o l’invecchiamento in acciaio o legno, si porta al naso e si allontana, si ripete per un paio di volte l’operazione, per 3-4 secondi (in modo da non assuefare il naso). Nel frattempo, bisogna roteare il bicchiere per far prendere aria (se il vino è fermo, naturalmente). Poi, si porta alla bocca, si deglutisce il primo sorso in modo da preparare la bocca e ambientare il palato, quindi, solo dal secondo sorso, possiamo iniziare a fare un’analisi tecnica completa. Quando si annusa si recepiscono i 3-4 ricettori principali (i fiori, la frutta, la terra e non cose inventate), in bocca il cervello inizia a confermare il sentore percepito all’olfatto. Un vino, per quanto mi riguarda, mi dà sempre più soddisfazione al palato: la bocca ha più ricettori rispetto al naso, per esempio avverte l’acidità, l’astringente, l’amaro, il dolce o il salato. Attenzione: mai bere troppo vino durante le analisi tecniche, il vino va sputato.
A proposito di “non cose inventate”, il linguaggio della sommellerie per i non addetti ai lavori talvolta può apparire bizzarro: come avvicinarsi di più al pubblico?
Credo che sia necessario riportare tutto alla realtà: il linguaggio non deve essere prolisso, anche perché il cliente viene per passare una bella serata al ristorante. Il linguaggio deve essere fruibile, ma nemmeno insulso: ci vuole equilibrio per parlare di vino, proprio come farebbe un dottore nel tradurre i risultati di un esame medico. È giusto catturare l’attenzione per qualche secondo, per poi lasciare che il tavolo prosegua la sua serata. Deve essere un linguaggio semplice e simpatico, molti clienti non ne sanno nulla e, per quello, esistiamo noi sommelier. Quando ti chiedono: cosa mi consiglia? È la domanda più bella che ti possono fare, in genere cerco di capire i gusti di chi ho davanti con qualche domanda giusta, ricordandomi di avere sempre un’alternativa. Anzi ci vuole il piano b, ma anche c e d: i clienti non sono tutti uguali, ognuno è speciale e merita l’abbinamento corretto, anche in un menu degustazione. Il bello del mio lavoro è non standardizzare il servizio: non è un lavoro, è una professione fatta di tanta passione e conoscenza, che ti viene da dentro.
Che consiglio darebbe a chi, magari ispirato da lei, decidesse di diventare sommelier?
È una bellissima professione: se senti dentro di te una voce, una forte vocazione, seguila. Comincia a frequentare locali di tutti i tipi, senza preconcetti: dalla trattoria con la cucina della nonna al ristorante di alto livello. L’open mind nasce dalla curiosità ed è la curiosità che porta a migliorarti sempre di più. Se mangi un panino col salame, il pane deve essere di lievito madre e il salame artigianale. Anche nelle cose più semplici bisogna cercare il massimo della qualità. E questo vale anche nei vini: non vini costosi e di una certa categoria (solo biodinamici o solo naturali), bisogna essere aperti mentalmente, la curiosità è la cosa più grande che abbiamo dentro di noi e bisogna coltivarla.