Cristiano Tomei è uno chef che ama stupire. Schietto, poco avvezzo a formalismi di sorta, Tomei è uno chef capace di catalizzare l'attenzione della platea e dei commensali in poche semplici mosse. Goliardico e al contempo ponderato, Tomei è chef de L'Imbuto, ristorante una stella Michelin all'interno del L.U.C.C.A. Lucca Center of Contemporary Art. Ma L'Imbuto non è il ristorante del museo, è un ristorante che alberga nelle sale del museo, mandando in cortocircuito i visitatori, che tra una sala e l'altra, possono perdersi tra i suoi tavoli. I commensali seduti al tavolo diventano essi stessi opere d'arte e il dialogo si instaura in maniera fulminea e naturale. "Come si mangia qui"?, "Bene, la mostra invece com'è"? Abituato a sorprendere in maniera del tutto naturale, forse anche per la sua familiare e confortante c aspirata, tipica della Toscana balneare, Tomei è un cuoco autodidatta, che nella cucina ha trovato la sua cifra stilistica, avanguardistica con un occhio sempre rivolto alla tradizione.
Noi di Fine Dining Lovers abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lo chef Tomei che ci ha raccontato la sua storia, tra i fornelli e il mare.
Da marinaio a chef stellato, ci racconti la Sua storia. Lei è un cuoco autodidatta: quando ha capito che questa sarebbe stata la sua professione?
Sono originario di Viareggio. Ho iniziato a cucinare per gioco a 10 anni e non ho mai smesso. Le mie scelte sono sempre state spensierate, se così si può dire. Ho frequentato l'Istituto Nautico, la "scuola dei fighi" (ride, ndr) e vengo da una famiglia che non si è mai occupata di ristorazione, ma è a mio padre che devo la mia passione per la cucina; era lui che mi portava in giro per ristoranti, quando i ristoranti non si sapeva bene cosa fossero. Ed è grazie a lui che ho conosciuto la cucina di Peppino Cantarelli, uno dei miei punti di riferimento di sempre.
Dopo aver completato gli studi, sono partito alla scoperta del mondo e ho iniziato a viaggiare. Il resto è stato dettato dalla casualità. All'epoca lavoravo per mio padre come manovale e studiavo con tenacia quella cucina che tanto mi affascinava. Un giorno un amico mi ha detto che cercavano un gestore per portare avanti il loro bar. Ci siamo buttati in questa avventura e abbiamo aperto L'Imbuto. Da quel momento in poi per me il cibo è diventato tutto. Cucinavamo in modo assolutamente "clandestino", non spaghetti con le vongole, ma una cucina ispirata ai grandi maestri del mio tempo, tra cui Fulvio Pierangelini.
E com'è capitato in un museo?
Come per le cose migliori, per puro caso. Il direttore del museo veniva a mangiare da me e mi ha coinvolto in quest'avvntura. Lo dico con estrema tranquillità: la mia è una vita fatta di episodi che si susseguono per fato e per fortuna. In generale credo che nel lavoro di un ristoratore, molto dipenda dalle derive che prende la nostra vita. Non c'è solo una tecnica, è un percorso che si sviluppa costantemente e non si sa mai dove porti, proprio come un viaggio in mare.
L'imbuto si caratterizza per i suoi tre menu "alla cieca", in cui quello che varia è il numero di portate. Cosa l'ha spinto a questa scelta?
La scelta me la porto dietro da Viareggio, per un tema di "sanità mentale" (ride, ndr). Volevo smettere di essere schiavo del lavoro, avevo un'urgenza di fare della mia professione una cosa piacevolmente impegnativa e al contempo dovevo dare il massimo ai miei clienti, sempre. Ecco perché ho deciso di optare per un menu alla cieca. Le mie scelte sono state boicottate all'inizio, adesso vedo che molti dei miei colleghi hanno iniziato a intraprendere un percorso simile al mio. Per me la libertà è qualcosa che non si dovrebbe mai pagare ed è quello che ho voluto sottolineare con il menu "alla cieca". La linea del menu è data dai piatti classici, quelli che appartengono alla tradizione culinaria non solo della mia regione, ma dell'Italia tutta. La scelta di rendere la mia interpretazione sempre libera ha dato vita a dei piatti che variano in continuazione. Chi è venuto 4-5 volte a L'Imbuto può confermarlo. E può toccare con mano come il mio approccio al lavoro renda l'esperienza meravigliosa.
Qual è la Sua filosofia in cucina?
Per me il cibo è e dovrebbe essere sempre un'arma di condivisione. Il cliente non dovrebbe mai preoccuparsi del pensiero dello chef, perché è tramite i piatti che uno chef deve parlare al cliente. Credo fermamente che il cibo debba ritornare ad essere un momento di confronto, certo, ma soprattutto di condivisione. Con il cibo bisogna raccontare delle storie, non inventarle.
La Sua cucina è stata definita "un modello di quella che potrebbe - dovrebbe - essere la cucina creativa italiana del futuro": c'è qualcosa che la stimola nel panorama gastronomico italiano? E nel mondo?
Quello che attualmente mi stimola di più è vedere che sta cambiando qualcosa nell’approccio alla ristorazione. Stiamo capendo che sì le cattedrali del gusto ci devono essere e il ristorante che esist da 40 anni abbia una sua liturgia, ma questo mondo deve riappropriarsi di un suo linguaggio. Nutro una grande speranza per il futuro, inizio a notare che giovani stanno uscendo dal tunnel per cui fare lo chef sia solo "ganzo", anzi, le nuove leve della ristorazione sanno bene che questo è un lavoro duro, nonché fonte di grande privilegio.
Da poco più di un anno ha aggiunto un nuovo progetto, Satura, definito da Lei un "hub creativo": può raccontarci cos'è e com'è nata questa avventura? Qual è l'obiettivo che porta avanti?
Sàtura è un progetto in fieri e sicuramente uno degli obiettivi è farne una fondazione scientifica. In generale, è un posto che ha bisogno di tanto tempo per crescere. Attualmente funge da laboratorio per L'Imbuto, ma è anche un luogo in cui si organizzano eventi, ci si scambiano delle idee, è un posto che per me era necessario, una sorta di valvola di sfogo creativa.
Parlando di Fattore Umano, tema di Identità Golose 2018, come si raggiunge il giusto equilibrio tra brigata felice e clientela felice?
La mia intanto non è una brigata, ma è una famiglia, Facciamo degli orari talmente lunghi che a forza di stare insieme e condividere la maggior parte di ore di veglia si diventa una famiglia. Certo, è importante che ci sia un padre intelligente, dato in questo caso dallo chef (che preferisco comunque chiamare cuoco), perché la famiglia ha bisogno di punti di riferimento. Per me il Fattore Umano nelle cucine sono lo scambio e la comunicazione. Se mancano è il cliente che ne risente per primo. Altra cosa fondamentale per me è che non si crei mai una distinzione tra sala e cucina, perché entrambe sono parti fondanti - e fondamentali - della stessa famiglia.
Quali sono i Suoi progetti per il futuro?
Ho intrapreso un nuovo (e stimolante) percorso come supervisore didattico della Scuola Tessieri. Mi stimola l'idea di poter trasmettere ai ragazzi che vogliono intraprendere questa professione, l'amore per il cibo, ma soprattutto un ritorno all'essenziale in cucina. Per me il cibo è "sempicemente serio", ma è anche cultura. Voglio che i miei ragazzi capiscano che quello che li aspetta è un percorso molto difficile. Bisogna essere preparati e sapere che ci sarà molto da correre (ride, ndr).
E poi in cantiere c'è un altro progetto, ma questo è top secret e non posso dirti altro.
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