E non per l’aspetto: il cuoco burbero, nerboruto e tatuato è già stato sdoganato nella vulgata collettiva, e quasi diventato mainstream. Dario Picchiotti è un cuoco atipico perché non vuole parlare della sua cucina. Non vuole nemmeno sentire la definizione, di “sua cucina”. Dario Picchiotti è un cuoco atipico perché in cucina nemmeno ci sta: durante il servizio sta fuori, tra i tavoli, parlando con i clienti e prendendo le comande. Dario Picchiotti è un cuoco atipico perché quando parla dell’Antica Trattoria Sacerno, nella prima periferia bolognese, parla di aspetti su cui i ristoratori normalmente sorvolano, preferendo disquisire della spinta creativa tra tradizione e innovazione piuttosto che sugli aspetti pratici e quotidiani di un’attività ristorativa, su cui invece si concentra la nostra chiacchierata, come la gestione del personale o il food cost.
Di sé dice di essere un “matto con consapevolezza di esserlo” che “cavalca la tigre del personaggio”. Parte dell’esperienza di una cena a Sacerno è anche lui, che appunto non sta in cucina perché “sto in cucina quando gli altri non ci sono. La gente scappava - ho un brutto carattere. E poi con uno chef in sala serve metà del personale: io spiego, funziono, convinco”. I suoi piatti, come le Seppie con fegato grasso al torcione, misticanza e ghiacciata di cipolla rossa, o il Polpo scottato con cavolo cinese all'agro e gelato al chimichurri, sono esuberanti, chiassosi, guasconi. Piatti con un carisma, diciamo. Irresistibilmente divertenti. E lui pure.
Picchiotti è uno chef divisivo - lo sa bene chi ha visto l’edizione 2016 di Top Chef - ma di sicuro non è banale. E nemmeno è banale la sua risposta alla mia prima, banalissima domanda.
Quand’è che ha deciso di fare il cuoco?
Mia nonna era cuoca. Ho il ricordo di casa sua in estate: andare nel pollaio, vedere i conigli nel serraglio, colazione con pomodoro San Marzano, olio, filo di sale. Ma non è lì che ho deciso di fare questo mestiere. Sono il primo di quattro figli: ho iniziato a lavorare prestissimo perché dovevo lavorare. La passione è arrivata dopo. Ho fatto il cuoco nei locali di Vasco Rossi. Ho fatto il cuoco in discoteca. Ho lavorato in ristoranti stellati. Ho vissuto sei vite.
Quando parla di quel periodo i suoi racconti sono un po’ alla “Kitchen Confidential”.
È vero. Avevo perso la voglia di lavorare. Poi sono arrivato all’Osteria Satyricon di Bologna, dove mi hanno permesso di sperimentare molto, ma soprattutto mi hanno restituito il lato umano del lavoro. Ero un vecchio cuoco marcio e senza più nessuna forma di cortesia. Loro mi hanno insegnato a vedere il lato positivo delle cose, del mestiere.
E poi nel 2010 ha aperto Sacerno.
Sacerno non esisterebbe senza mia moglie Giada (Berri, NdR), che ora è mia socia e sommelier del ristorante. Lei mi ha ridato l’equilibrio. Lavorava nel settore teatrale a Pavia, ma per me si è trasferita e, grazie all’aiuto economico di suo padre Giorgio, che ci tengo a citare, abbiamo aperto Sacerno.
Perché la scelta di un ristorante di pesce?
Ho fatto un mero calcolo. Ogni volta che Ramsey deve rimettere a posto un ristorante in Hell’s Kitchen, cosa fa? Si guarda in giro e nota che tipologia di ristorante manca in città. A Bologna non c’era un ristorante di cucina creativa puramente di pesce e allora l’ho aperto. È stata una mera speculazione economica, poi da lì è nata la passione.
Sì, ma della sua cucina vogliamo parlarne?
Io non ho una mia cucina. Passami un pizzico di boria, ma voglio distinguermi da tutti gli altri che dicono di avere la propria cucina. Per me in Italia possono dirlo davvero in pochissimi: Lopriore, Bottura, Romito, Crippa, Esposito, Parini. E comunque i tuoi piatti non sono tuoi, vengono sempre da ispirazioni altre: la cucina appartiene al tempo, agli anni passati, ormai cosa si inventa?
Allora mi dica dei piatti che le dà più soddisfazione servire ai cliente.
Quelli più semplici. Nel mio spaghetto alle vongole ho fatto un lavoro sulla scelta delle tipologie di vongole. Lo amo. E il fritto. Il resto è tutta evoluzione. Forse il mio Spaghetto sul Portocanale, omaggio a Mauro Uliassi, ma metà è sua: è nato parlandone insieme, dopo una cena al suo ristorante.
È facile fare una cucina cosiddetta “creativa” a Bologna?
Tutti dicono che Bologna è una piazza difficile per i ristoranti. Allora, esclusa Milano che ormai è multietnica, multi-sociale e multi-economica, tutte le piazze italiane sono provinciali - e quindi tutte le piazza sono difficili. Ma per me alcune delle aperture più intriganti degli ultimi anni sono state fatte a Bologna. Lo sai qual è la difficoltà?
Quale?
Che la gente non compra il pesce, non fa la spesa e quindi non ne conosce il prezzo. Io cerco di lavorare con la grande qualità e mi contestano i costi. Alla fine qualsiasi grande ristorante di pesce lavora sottocosto rispetto a un grande ristorante tradizionale. Mi contestano i costi.
Da un mese Picchiotti ha rilevato, insieme all’amico e imprenditore Francesco Tonelli, il ristorante Casa Merlò in centro storico. “I piatti sono miei ma sono loro,” dice indicando i ragazzi di sala e cucina,” che fanno il lavoro grosso e portano avanti questa baracca”. Il menu è diviso in tre parti: Amo Bologna con piatti della tradizione, Da Sacerno con piatti di pesce della tradizione italiana, Quello che piace a noi con piatti che Picchiotti definisce “splatter”. Un esempio? Il Poldino.
Nasce dall’esigenza di creare uno street food bolognese. Bologna non ha cibo di strada - la piadina è romagnola! In città fino agli Ottanta l’hamburger si chiamava Poldino, dal nome dell’amico di Braccio Di Ferro che li mangiava sempre. Il ripieno dei tortellini viene schiacciato e messo in padella. Al posto dei cetriolini hai la salsa verde, al posto del cheddar una crosta di Parmigiano croccante, al posto del ketchup il friggione.
Quali sono le sue aspettative per i suoi prossimi ristoranti?
Vogliamo essere riconosciuti come istituzione bolognese. Non ho mai voluto un ristorante dove la gente “casca dentro”. Ci devono scegliere, non gli dobbiamo capitare.