Pani. Sta proprio nel plurale il senso del convegno, svoltosi a Firenze la scorsa settimana, che ha visto alternarsi le voci di mugnai, agricoltori, nutrizionisti, fornai. Un'Italia panificatrice raccontata lungo tutte le tappe della filiera che si è rivelata con tutte le luci, ma anche le tante ombre, di un settore molto più complesso di quanto credevamo.
Ecco perché la necessità del plurale. Abbiamo parlato di pani e non di pane. Pani diversi dal Nord al Sud del paese, pani diversi da com'erano cinquant'anni fa, pani diversi grazie al nostro straordinario patrimonio cerealicolo. "I problemi dell'alimentazione, a livello globale, si risolvono con la biodiversità" è una delle frasi dall'impatto più forte sentite durante i due giorni di convegno. Una lezione che, evidentemente, per molto tempo abbiamo disimparato.
SI FA PRESTO A DIRE GRANI ANTICHI
Evocano un passato di venerabile tradizione, nonne davanti al forno e mulini ad acqua. Ma cosa intendiamo, esattamente, con grani antichi? Fondamentalmente tutti quei grani che, negli ultimi sessant'anni, hanno progressivamente smesso di venire coltivati. Sono meno produttivi del frumento che ha subito il cosiddetto "miglioramento genetico", frutto di incroci, ibridazioni e irradiazione con i raggi gamma. Non si tratta di veri e propri OGM (che in Italia, ricordiamolo, non si possono commercializzare) ma comunque di uno stravolgimento nella composizione che li ha resi più bassi: rispetto a quelli di un secolo fa, i grani di adesso sono più bassi ("nanizzazione" del grano), più produttivi - rese di 70 chili all'ettaro contro quelle di 30, 35 - e conseguemente più economici.
Una scelta di carattere finanziario, che però ha avuto conseguenze anche sul piano della salute. "Il grano di adesso contiene alte quantità di glutine" spiega Stefano Benedettelli "Questo rende le farine facilmente panificabili, con una forza elevata, oltre i 160 W. Spesso le antiche varietà non arrivavano a 100". L'effetto collaterale però è che sono in aumento i casi di celiachia e intolleranza al glutine, perché i "nuovi" grani sono meno digeribili, ed essendo il glutine fortemente allergizzante, spesso fanno sviluppare altre iper-sensibilità.
NON SOLO MODA ...
Non c'è da stupirsi che il pane sia diventato uno degli alimenti più demonizzati. Il carboidrato nocivo, il complemento inutile da evitare, la portata da sostituire. "In realtà i grani si sono co-evoluti, per millenni, con l'umanità" spiega il nutrizionista Pier Luigi Rossi "È una sostanza che comunica con il nostro genoma". Alcuni studi hanno provato che, mangiando per 8 settimane una determinata varietà di grani, si assiste a un abbassamento significativo di LDL (il cosiddetto colesterolo cattivo). Varietà "antiche", appunto, che però contengono meno glutine, più fibre e meno calorie. "Una fetta di pane del 1940 conteneva cinque volte più nutrienti di una fetta di pane di oggi" conclude Rossi.
... E NON SOLO DIETA
"Mio nonno me lo diceva sempre: la montagna scenderà a valle". Così introduce il suo discorso Lorenzo Ighina, dell'Azienda Agricola La Felicina in provincia di Savona. Come a dire: se la trascurate, quella montagna, vi franerà addosso. Lui, come molti altri agricoltori presenti all'incontro - Rosario Floriddia, Vincenzo Coppola, Giuseppe Li Rosi - ha fatto la scelta di tornare alla terra e recuperare l'azienda di famiglia. In tutte le loro testimonianze c'è la fatica di una scelta che non è stata scontata: dopo anni di carriere e percorsi universitari sono tornati alla campagna, quella campagna "che puzzava di diserbanti e fungicidi" e che prima li aveva allontanati.
Negli anni 20 c'erano tre milioni e mezzo di ettari coltivati a grano. Ora sono 560.000, e il 60% di grano tenero che consumiamo viene importato. Per recuperare le aree marginali, però, ci vogliono sempre loro, i "grani antichi" che nonostante le basse rese si adattano al cambiamento climatico e non esauriscono i terreni.
Lontani dall'idea di una produzione che deve essere esasperata a tutti i costi, c'è il bello di aziende che riscoprono cereali che hanno sempre fatto parte della nostra tradizione gastronomica e sono adatti ai terreni in cui vengono coltivati. La semente diventa chiave di un cambiamento. Ci sono l'enkir dell'azienda agricola La Felicina, ricco di carotenoidi e adatto a essere coltivato in rotazione con le patate; la biancuzza dell'azienda agricola Terre Frumentarie; il farro che è diventato simbolo della Garfagnana.
RITORNO AL FUTURO
La coltivazione di grani antichi, però, non è tutta la soluzione, bensì un inizio della soluzione. Un recupero in chiave nostalgica può risultare un'ottima operazione di marketing, utile però solo alle aziende e non ai consumatori. Filippo Drago, ad esempio, chiama "farine integrate e non integrali" tutte quelle a cui viene aggiunta crusca rimacinata dopo la molitura. Ci sarebbe la necessità di un'etichettatura e una legislazione coerenti che in questo momento mancano.
Drago guida l'azienda di famiglia, Molini del Ponte, a Castelvetrano (provincia di Trapani). Ha riscoperto grani come russello, perciasacchi, bidì, biancolilla, maiorca e ovviamente tumminìa - che però in questa zona è sempre stata coltivata, base imprescindibile del Pane Nero di Castelvetrano - che molisce a pietra o a cilindri. Le sue sono farine sinceramente naturali e nutrienti, per ottenere il quale non si può prescindere dalla tecnologia, e lui non lo nasconde. "Preferisco una macinazione a rulli, fatta bene, rispetto a una a pietra fatta male. Non limitiamoci a leggere l'etichetta senza scoprire cosa c'è dietro" spiega Filippo Drago.
La molitura, appunto, è una fase importante e spesso sottovalutata: quelle industriali distruggono le qualità migliori e non preservano i nutrienti. Ulteriore tappa di una filiera che andrebbe supportata in ogni passaggio.