Domenico Stile, chef dell'Enoteca La Torre, è lo stellato più giovane di Roma.
Il suo ristorante si trova nel cuore della capitale, a pochi passi da Tevere, all'interno di uno location unica quale è Villa Laetitia.
Noi di Fine Dining Lovers l'abbiamo incontrato. Ecco cosa ci ha raccontato sui suoi esordi, sul suo lavoro a Roma, sulla sua cucina.
Com'è iniziato il suo percorso in cucina?
Tutto è partito quando avevo circa quattordici anni. Mi sono appassionato alla cucina vedendo in azione mio zio Franco La Mura, anche lui fa lo chef. Era molto bravo nell’intaglio dei vegetali e nelle sculture in margarina, in tutte quelle proposte scenografiche che venivano fatte nei buffet e che andavano di moda agli inizi degli anni 2000. La cosa mi affascinava, andavo a casa sua a vedere come le faceva e piano piano ho iniziato a cimentarmi, partecipando poi a gare di cucina artistica under 23, vincendo qualche trofeo. Mi sono iscritto all’istituto alberghiero e lì ho conosciuto una persona fondamentale per me, Enrico Cosentino, il mio professore che al terzo anno mi ha fatto capire che la mia strada sarebbe stata quella dell’alta ristorazione.
Qual è stato il vero “salto”?
A dire il vero ci sono stati due “salti”. Il primo è stato un salto mentale, quando ero all’istituto alberghiero e seguivo le lezioni del prof. Cosentino. Lui impostava le lezioni di cucina facendoci vivere una vera e propria esperienza di lavoro, come se fossimo in una brigata di un grande albergo. Il salto gastronomico è stato con Vissani, la mia prima grande esperienza. il mio primo approccio con l’alta ristorazione vera e propria.
Ci racconta com'è stato il suo arrivo all’Enoteca La Torre?
Sono arrivato all’Enoteca La Torre nel febbraio 2016, dopo alcuni incontri con Michele Pepponi. Durante i nostri colloqui ci siamo resi conti che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda e che avevamo gli stessi obiettivi. È stata molto dura all’inizio, ero timoroso e non posso negare di aver avuto anche paura. Prendere una struttura con grandi riconoscimenti alle spalle, venti camere ed eventi di nicchia da gestire era per me una nuova esperienza. Ho avuto un gruppo capace che mi ha aiutato, i ragazzi in cucina sono stati molto bravi, mi hanno supportato e aiutato, specialmente Antonio, il mio vecchio secondo. Abbiamo aperto il ristorante in soli cinque giorni e dopo soli sette mesi è arrivato il riconoscimento della stella Michelin. Questo ci ha dato grande soddisfazione e tanta forza.
Ha lavorato in altri ristoranti all'interno di hotel?
Sono stato il secondo al Mosaico di Ischia, un due stelle Michelin in un cinque stelle lusso. Livelli molto alti, con uno chef molto esigente. Il ristorante situato in un albergo è difficile da gestire. Uno chef che ha maturato esperienze in un albergo, che si è quindi trovato a gestire un ristorante gourmet e tradizionale, il room service e il light lunch, le colazioni e il servizio piscina, può gestire con meno difficoltà un classico ristorante. Spostarsi invece in un ristorante d’albergo da un’esperienza in un ristorante classico credo sia più complicato. Inoltre c’è sempre da tenere presente che i clienti dell’albergo sono spesso internazionali, c’è quindi bisogno di far piatti che accontentano un po’ tutti, senza tralasciare la propria identità, ma strizzando l’occhio a una clientela che arriva da il mondo, con piatti leggibili che danno la possibilità allo straniero di assaggiare prodotti e sapori della nostra terra.
Cosa ritiene di aver imparato in una realtà ormai così affermata della ristorazione?
La gestione di un ristorante di alto profilo. Che va dal rapportarsi con i fornitori a quello con la proprietà e con i clienti. Inoltre è importante saper gestire i rapporti umani anche con i collaboratori, spesso questo viene messo in secondo piano ma avere una squadra che ti aiuta e ti supporta porta a fare un lavoro migliore e a rendere tutto più semplice.
C’è qualcuno che considera il suo maestro?
Potrei citare tutte le esperienze che ho fatto: Vissani, Bottura, Crippa, Cannavacciulo, tutti chef internazionali che mi hanno dato tanto. Sono però tre gli chef che considero veri e propri maestri: mio zio Franco La Mura, che mi ha fatto appassionare a questo lavoro; Enrico Cosentino, uno degli chef mentore della Costiera, che mi ha preso sotto la sua ala; Nino Di Costanzo, il suo Mosaico ad Ischia per me è stata un’esperienza fondamentale, un’esperienza di vita e professionale.
Lei è lo chef stellato più giovane di Roma, il primo consiglio che darebbe ai giovani cuochi che guardano a lei come a un modello?
Quello di approcciarsi a questo lavoro con umiltà e impegno, che oggi spesso mancano. Noto una differenza rispetto a quindici anni fa. Ora tutti si avvicinano alla cucina in un’età più avanzata, sono meno disposti a fare sacrifici e non hanno consapevolezza di diversi aspetti di questo lavoro. Frequentemente ci si trova davanti a ragazzi arroganti che si aspettano di diventare chef riconosciuti a 23 anni. Il mio consiglio è quindi quello di non guardare agli idoli e ai personaggi televisivi, perchè anche questi hanno fatto la loro gavetta prima di arrivare là. C’è bisogno, in questo lavoro, di tenere la testa bassa e impegnarsi.
Quali sono i piatti più rappresentatitivi della sua cucina?
Credo che siano tre. Lo Spaghetto tiepido all’Amalfitana con battuto di gamberi crudi, emulsioni di teste di gamberi e umeboshi; l’Agnello alla Villeroy, salsa di champignon e senape, tartufo e millefoglie croccante di patate e timo limonato. Il terzo è un dolce, io sono appassionato di dolci, ho fatto per due anni e mezzo pasticceria, si tratta del Sandwich al caffè caramellato, tabacco, liquirizia e gelato ai fiori di sambuco.