Passeggiare in alcuni tratti del Lungotevere, con le auto che sfrecciano da una parte e gli alberi che lasciano intravedere l’acqua scorrere placida e feroce dall’altra, suscita malinconie e ricordi lontani.
Arrivare a Villa Laetitia significa fare un tuffo nel passato, nella confezione di inizio ‘900 barocca e rinascimentale, secondo i gusti decadenti dell’epoca. Dicono che Buffalo Bill in persona si accampò qui per il suo unico spettacolo italiano. La proprietà della famiglia Fendi, arbitra di eleganza romana, oggi ospita camere finemente lussuose e, dal 2013, il ristorante Enoteca La Torre, che già a Viterbo raccolse applausi.
Si può credere che l’ampia sala con la grande vetrata, i camerieri impettiti e i caminetti uno in ogni angolo mettano in soggezione l’ospite. Ma, come alle volte accade, non c’è piacere più sottile del demolire stereotipi: cucina, servizio e cantina creano un’osmosi perfetta che fluisce tra i tavoli per creare una magia capace di appagare e rilassare l’ospite in maniera naturale, leggera.
Ai fornelli Domenico Stile porta freschezza e tradizione, quella della sua terra campana (è di Gragnano, se la pasta non la sa cucinare lui...), facendo tesoro di quanto rubato con occhi e palato da Bottura, Crippa, Cannavacciuolo, Vissani, Achatz e Nino Di Costanzo, di cui era sous chef in quel di Ischia. Dimenticavo, ha solo 27 anni.
Alle bottiglie, invece, ci pensa il romagnolo Rudy Travagli, donando all’avventore assetato e curioso la possibilità di assaggiare vini che difficilmente potrebbe bere fuori da lì. Con il suo Coravin e un bagaglio di esperienze che vanno da Enoteca Pinchiorri a The Fat Duck di Heston Blumenthal è in grado di servire con naturalezza un calice di Petrus del 1998 (925 euro a bicchiere).
Insomma, parliamo di una squadra di All-Star. Un percorso gastronomico e uno enologico capaci di viaggiare su binari paralleli e spettacolari.
L’apertura della degustazione è affidata a piccoli assaggi dove trovano spazio le tradizioni, come la Mozzarella in carrozza con pomodoro, le provocazioni, come la Spugna mortadella e crema di pistacchio e il godimento puro, affidato al Blu di Bufala ricoperto di granella.
Con i giusti ritmi, seguono la Tartara di Tonno con Dashi d’accompagno, impiattata con delicatezza assecondando i naturali toni del rosso, dove la materia ha un punto di grasso perfetto e un sapore che lo fa sembrare quasi un dolce, e un Merluzzo con zucca e acqua di Provola. Morbidezza del pesce e affumicatura della provola sembrano fatti l’uno per l’altra.
Ma chef Stile, come ho detto, non è solo campano. Viene da Gragnano, il regno della pasta. I suoi primi sono un omaggio alla terra, al mare e alla bontà assoluta. Se con il Finto Risotto all’Amatriciana, Seppia alla Diavola e aceto balsamico (35 euro), dove la parte del cereale la fa la piccola pasta di semola creata appositamente per lui, vuole non stuzzicare, ma rendere grazie alla città che l’ha ospitato, con gli Spaghetti al Ragù di Pesci di scoglio, Nduja, Bergamotto e Patata Acidula (35 euro) porta alla tavola un piatto semplicemente meraviglioso e la visione di un Pollock. La pasta è perfetta, i pesci si sentono in tutte le loro sfumature, la Nduja dà carattere, la patata spicca e il bergamotto rinfresca tutto col suo profumo. Si rischia la dipendenza. L’Agnello alla Villeroy (40 euro) mostra i muscoli della tecnica, mentre tra i dessert Mostaccioli, Kaki, Castagne e Yogurt al pisto ha il pregio di essere tanto in tema stagionale per colori e ingredienti, quanto una fusione di punti diversi e piacevoli. Con una punta di tartufo a chiudere il tutto.
Si inizia con la mozzarella amor di gioventù e si finisce con Haute Cuisine attraverso emozioni gustative di sostanza ed eleganza.
Accanto al percorso delle portate ne esiste uno del bere, indipendente e altrettanto eccitante: Rudy Travagli ci ha dedicato del tempo per spiegare non soltanto le bottiglie aperte, ma la filosofia che ha deciso di adottare per questo progetto.
Come abbino un vino a certi livelli? Semplice, non lo abbino.
“L’idea che porto avanti qui può sembrare un’eresia. Ma ha invece perfettamente senso. Quella che troviamo oggi è una cucina abbastanza omologata da Nord a Sud, in Italia come all’estero. I piatti hanno già tutti gli elementi per essere calibrati: acidità, sapidità, freschezza, consistenza. Abbinare il vino serve alla cucina della tradizione per stimolare il palato attraverso ciò che manca.”
Il lavoro fatto dal sommelier si traduce in una carta alta come un tomo enciclopedico: più di 300 vini possono essere serviti sia in bottiglia, sia alla mescita grazie al coravin, strumento che permette di estrarre il liquido senza aprire e rovinare il nettare all’interno. “Cerco di fare abbinamenti emozionali, poetici, che rispecchiano uno stato d’animo o che scatenino ricordi. Quando esco a cena scelgo sempre prima il vino a seconda di come voglio sia la serata. Se voglio un’esperienza briosa, è capace che accompagno tutto il pasto con delle bollicine. Esattamente come, contro ogni dogma, mi piace spesso concludere con un grande champagne. Oramai i vini che ci sono sempre più commerciali, inteso come simili, il che ti porta ad una perfezione poi dei gusti. Alla prima nota stonata si grida allo scandalo. Ma la bellezza del vino sta nelle sue imperfezioni. Imperfezione significa umanità, quella che viene fuori dalla caparbietà dei produttori, che nonostante alcuni problemi, cercano di ottenere il massimo. Non ottenerlo vuol dire raccontare una storia, a volte bellissima, a volte drammatica.”
E così sono uscito, il sorriso sulle labbra, una bottiglia che porta i miei anni e i passi lenti, e l’acqua del Tevere ora non era più malinconica, ma bellezza che fluisce verso un punto che non è possibile conoscere.
Come fossi appena stato a una grande festa indietro nel tempo.
Cosa Enoteca La Torre
Dove Lungotevere Delle Armi 22/23, Roma
Info 06 4566 8304
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