Due settimane fa alla cerimonia dei The World's 50 Best Restaurants di Melbourne erano quattro gli chef italiani a ricevere gli applausi del pubblico, posare per i fotografi, rispondere alle domande dei giornalisti. Tra di loro loro ce n’era uno meno abituato degli altri ai flash e ai microfoni.
È raro vedere Enrico Crippa fuori dal suo ristorante, il Piazza Duomo, che quest’anno è salito dalla posizione 17 alla 15. Un passo piccolo, grandissimo se allarghiamo l’inquadratura ad Alba, nel cuore delle Langhe, dove il Piazza Duomo è nato solo dodici anni fa. 15esimo nei 50 Best, tre stelle Michelin, un recente Grand Prix de l'Art de la Cuisine: Crippa ha inanellato questi riconoscimenti con lo stesso understatement con cui ha costruito un curriculum internazionale di raro pregio, partito dalle cucine Gualtiero Marchesi e passato per quelle di Michel Bras e Ferran Adrià, spaziando dalla Francia al Giappone.
Dopo tanto viaggiare, ora ha ritagliato la sua dimensione in questa cittadina di provincia, da cui esce poco e malvolentieri perché “A prendere un aereo per fare un’ora di convegno mi stanco il doppio che a cucinare tutto il giorno. Tanto di cappello ai miei colleghi che hanno un ristorante a Milano, uno a Venezia, uno a New York… a me risulterebbe impossibile. Ho dato un taglio alle città, le ho vissute troppo e non fanno più parte di me: come ci insegna la favola, il topolino di campagna è sempre più simpatico di quello di città”.
Lei in provincia (a Carate Brianza, hinterland milanese, NdR) è nato e alla provincia è tornato.
Non ero mai stato nelle Langhe prima. Quando Bruno Ceretto (della famiglia Ceretto, proprietari del ristorante, NdR) ha deciso di aprire un ristorante si è detto: se a Bresse con un pollo ha conquistato il mondo, noi che in Langa abbiamo tutti i prodotti possibili e immaginabili cosa possiamo fare? Perché in una terra così ricca - Barolo, Barbaresco, nocciole, tartufo, formaggi, carne - non c’è una grande eccellenza ristorativa? Appena ci siamo incontrati Ceretto mi ha detto “Io qui voglio un ristorante con tre stelle Michelin. Ha capito?”. Ma non mi sarei mai immaginato di arrivare dove sono ora.
La definizione più usata e abusata per la sua cucina è “zen”. Ci si ritrova?
Mi ha rotto un po’ le scatole la definizione di zen. Certo, c’è una coreografia orientale nei miei piatti, nel modo grafico di costruirli e di concepirli gustativamente - decisi e al tempo stesso leggeri - ma se conosci la mia biografia c’è tutto: l’essere italiano, l’essere italiano in Piemonte, gli anni in Francia.
Si nota la differenza di clientela man mano che aumentano le stelle?
I rompiscatole da una stella - i vorrei ma non posso, che possono permettersi la cifra ma non sanno nulla - con due diminuiscono e a tre scompaiono. Arrivano solo persone che pianificano la visita con mesi di anticipo e sono esigentissimi. Comunque io tre stelle le ho nella carta ma non nella testa: quando le ottieni rischi di tirare il freno a mano e perdere energia. Brucio di stress e probabilmente vivo male, ma non voglio sentir dire da nessuno che il Piazza Duomo si è arenato, preferisco continuare a pensare di non averle ancora prese. O che ce ne sia una quarta.
Nota differenze tra i clienti anche in base alla loro nazionalità?
Moltissime. I francesi hanno l’atto di andare al ristorante nel sangue. Gli scandinavi sono pronti e preparati, si distinguono per l’intelligenza dell’approccio alla tavola, studiano molto. Gli americani hanno questa capacità di metterti a tuo agio: per loro è sempre un piacere e un onore cenare da te. Ci sono differenti attitudini anche nei gusti. L’italiano ama l’acido e l’amaro, non apprezzato invece dai francesi. Il mondo asiatico è agrodolce, i giapponesi fanno fatica a capire il troppo sapido, come il mio agnolotto con fonduta di tartufo che a loro dà fastidio. Gli scandinavi sono più preparati a gusti freddi e fermentazioni.
Tra le tante esperienze che ha fatto, quali l’hanno resa lo chef che è oggi?
L’Hotel Martinez a Cannes mi ha dato il senso del mestiere. Marchesi è stato il primo chef a non parlare solo di cucina, a dirci che potevamo essere intelligenti, discutere di cultura e arte ed essere eleganti. L’avanguardia spagnola invece ha fatto capire a noi cuochi che potevamo essere liberi dalle impostazioni della scuola francese. Comunque non è tanto quello ti può quello ti può insegnare una persona, piuttosto quanto le vuoi assomigliare.
Lei che esempio pensa di essere per la sua brigata?
Non grido mai in faccia a nessuno ma al tempo stesso esigo tanto. Ci metto io la faccia se fai un errore! Voglio che usciti da qui le persone dicano “Questo è uno di Crippa”. Non accarezzo, non abbraccio, non ti porto a bere una birra - ma non lo faccio nemmeno con la mia fidanzata.
Il suo orto è quasi leggendario. Quante varietà ci crescono ora?
Ne abbiamo uno sotto la tenuta Ceretto, in località San Cassiano, e poi uno a Barolo. Tra erbe, insalate e fiori l’anno scorso - catalogate a giugno - erano 131, più una cinquantina di varietà tra frutta e ortaggi. La maggior parte dei nostri piatti è legata alla natura e a una filosofia territoriale, 70% vegetale e 30% proteine. Non sarebbe stato rispettoso per la tradizione di questa terra, che mi ha ospitato e portato fin qui, tagliare in modo netto con piatti come il vitello tonnato o la carne all’albese. Però è più facile essere creativi con la verdura.
Perdoni la banalità della domanda, ma qual è la sua stagione preferita?
L’inverno, il più bello e colorato: hai rape rosse e bianche, cardo bianco e rosso, cavolo cappuccio e cavolo nero, zucche, fichi, funghi… Il peggior momento invece è il passaggio dall’inverno alla primavera. La gente è inquieta e vuole cambiare, in terra succede la stessa cosa.
Al netto della creazione di una quarta stella, cosa c’è nel futuro di Enrico Crippa?
Una parte di me non vede l’ora di avere più tempo per riposare, godendomi tutto quello che non mi sono goduto prima. Mi piacerebbe non dover essere sempre incastrato nelle cose e andare continuamente di corsa. Quando smetterò smetterò del tutto.