Una volta mi hanno detto che i pugliesi, quando parlano della loro terra, hanno quel misto di malinconia, disappunto e cautela di chi parla di una ex fidanzata col dubbio che tu possa essere la sua migliore amica.
La stessa impressione la si ha parlando con Fabio Abbattista. Da un anno il giovane chef ha preso in mano le cucine de L'Albereta, il Relais & Chateaux della famiglia Moretti a Erbusco, in Franciacorta. È lui a condurre le danze del VistaLago Bistrò, del ristorante legato alla Spa Henri Chenot e soprattutto del ristorante gastronomico LeoneFelice. Ma la Puglia è sempre presente nei suoi racconti, che sia per parlare del mare ("Sento l'esistenza fisica di vederlo, è un elemento fondamentale") o della loro cucina.
Da Molfetta venite lei, Fabio Pisani, Felice Lo Basso. Si respira cucina fin da piccoli?
Non vengo da una famiglia di cuochi ma il gusto, quello vero e intenso, è sempre nel sangue di noi pugliesi. L'altro giorno una cliente del ristorante mi ha detto "Io non sapevo fosse del Sud, ma mentre cenavo ho detto a mio marito: sicuramente lo chef è meridionale. C'era troppo sapore per non pensarlo!". Un complimento bellissimo.
L'idea di diventare chef è arrivata presto?
Assolutamente no. Ho cominciato la scuola alberghiera un po' per gioco, non ero folgorato. L'amore vero è iniziato iniziando a lavorare: stare all'interno di una brigata, la tensione della preparazione. E si alimenta con gli anni, specialmente se hai la fortuna di incontrare chi te la aumenta.
Lei ha lavorato a Roma, a Londra, a Milano e anche da Atene: una scelta curiosa.
Era il 2008, gli anni pre-crisi: la mia prima vera esperienza come chef in una struttura importante. La loro è una cucina da scoprire, non ci sono solo moussaka o pita gyros.
L'impressione, assaggiando la cucina di Fabio a distanza di tempo, è che si sia calata maggiormente nel territorio, saltando agilmente da un Lavarello “alla mugnaia”, calamondino e toffee di cavolfiore agli Gnocchi di zucca, robiola di capra e pan di spezie. E infatti lui si entusiasma a parlare di come ha riscoperto il pesce di lago ("Me l'ha fatto conoscere uno degli ultimi pescatori rimasti del lago di Iseo: non è paragonabile a quella del pesce di mare, ma sta alla bravura dello chef rivalutarlo ed esaltarlo") o dei prodotti che crescono nel suo orto.
Quanto influenza la sua cucina il territorio dove si trova?
È fondamentale. Bisogna sempre adattarsi e conoscere il posto. La mia cucina è 60% di territorio e 40% di esperienza. E parlando con la clientela penso che stiano apprezzando sempre più l'approccio: sto imparando a parlare con loro e confrontarmi, è il momento più importante della cena.
Quanto l'ha condizionata, invece, lavorare anche per il ristorante Henri Chenot?
Ho scoperto ingredienti interessantissimi come bulgur, quinoa, tofu - faccio delle crocchette straordinare con le spezie. L'ultima frontiera è proprio quella: far star bene le persone e soddisfarne il gusto, bilanciare il menu in modo da non appesantirli, cercare un compromesso.