A parlare per la prima volta di “gastrodiplomazia” pare sia stato l’Economist: in un articolo del 2002 si raccontava come, in Thailandia, il cibo fosse diventato uno strumento di autopromozione. A vent’anni esatti di distanza questo termine è sicuramente più diffuso e utilizzato, ma sbaglia chi immagina solo diplomatici ben vestiti e ambasciate tirate a lucido: perché, oggi, la gastrodiplomazia è qualcosa di molto più complesso, sfaccettato e, soprattutto, utile.
Cos’è la gastrodiplomazia
“La gastrodiplomazia è una branca della diplomazia culturale, definibile anche come soft power, in contrasto alla ‘diplomazia dei trattati’. Si può applicare a nazioni ma anche a regioni, comunità, città”, spiega Simone Cinotto, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. “Una definizione che possiamo riassumere dicendo che contribuisce a rendere più gradevole l’identità di un paese: nel caso dell’Italia, per esempio, il cibo è sempre stato parte della nostra identità, ma questa consapevolezza si sta sempre più delineando come strumento anche per altri paesi”. Proprio all’UNISG dal prossimo anno verrà lanciata una Laurea Magistrale in International Gastronomies and Food Geo-Politics che si propone proprio di formare studenti che sappiano muoversi nel mondo della gastrodiplomazia.
Un'aula dell'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo
Prendiamo il Perù, per esempio: “Negli ultimi anni il paese ha reinvestito milioni di dollari – spiega Cinotto – guadagnati attraverso l’industria estrattiva del petrolio, nella promozione della cucina peruviana”. Questo approccio alla cucina — intesa non solo come settore ristorativo, ma come l’insieme di tradizioni, prodotti, ricette — vale anche per le singole città: “Da quando ci sono state le Olimpiadi del 2006, Torino è stata capace di raccontarsi come città del cibo sostenibile, città del gusto. E questo cosa porta? Ovviamente ad attrarre più turisti. Ma anche a fare diplomazia a livello urbano”. L’esempio per eccellenza è Milano: “Expo 2015 è stato un doppio modello di gastrodiplomazia. Da una parte i padiglioni erano ‘pubblicità’ dei singoli paesi — ognuno declinato in modo diverso: alcuni in chiave politica, altri in chiave agroalimentare, altri in chiave di sostenibilità — dall’altro è stato una vera e propria promozione della città di Milano”.
Come usare la gastrodiplomazia
Nel corso della Laurea Magistrale gli studenti possono studiare culture gastronomiche e sistemi alimentari da tutto il mondo, politiche del cibo internazionali — e come esse vengono sviluppate da governi, ONG, movimenti sociali — e promozione del cibo, che sia al servizio di paesi, città, istituzioni o altro. Al centro di tutte le materie, i viaggi e i tirocini ci sarà ovviamente il cibo. Alessandra Roversi, UNISG Alumna, è Programme Officer alla Swiss Agency for Development and Cooperation e spiega l’importanza del cibo come “elemento di comunicazione non verbale. In questo senso è perfetto per far parte del soft power di un paese che, come si dice in inglese, serve a win the hearts degli altri popoli, conquistarli. Il cibo contribuisce a veicolare l’immagine positiva di un paese e a costruire le sue relazioni all’estero”.
Attenzione però a non sottovalutare la gastrodiplomazia e considerarla come qualcosa di accessorio, quasi frivolo: “Il cibo ha implicazioni economiche e politiche, non è un’idea astratta”, ricorda Roversi. “Gastrodiplomazia è proteggere le Dop e aumentare le vendite di alcuni prodotti; è far diventare un paese destination place for food, promuovendo il turismo; è aiutare economicamente, come faceva la Thailandia, chi vuole aprire ristoranti thai nel mondo; o ancora creare una certificazione, come ha fatto il Giappone, dell’identità nipponica dei ristoranti giapponesi all’estero”.
Gastrodiplomazia vs gastronazionalismo
Laddove il cibo diventa elemento di divisione, si parla di gastronazionalismo: un concetto elaborato da Michele Fino, Professore Associato a Pollenzo di Diritto Romano e Diritti dell’Antichità: “Il cibo dev’essere sempre promosso come punto di incontro non solo tra popoli, a volte anche all’interno dello stesso popolo: pensiamo per esempio alla Colombia dove, dopo anni di guerra civile stiamo assistendo a tentativi di riconciliazione tra le diverse fazioni usando proprio la gastronomia”.
Roversi definisce come "diplomazia culinaria" l’uso "classico" del cibo come elemento diplomatico, ad esempio durante pranzi o banchetti. Un uso che a volte può rivelare molto più di quanto pensiamo degli usi e costumi di un paese: “È interessantissimo guardare i menu del Quirinale,” racconta Fino. "Fino agli Sessanta la gastronomia francese era considerata l’unica accettabile per i pranzi e le cene di Stato. Basti pensare che durante il settennato di Einaudi non è mai - e dico mai - stata servita la pasta, e il menu veniva scritto in francese! Solo negli ultimi decenni c’è stata una grande apertura alla cucina italiana. E la pasta è diventata una presenza fissa solo da Pertini in avanti”.
Un pranzo al Quirinale durante una delle ultime edizioni del G20
La presenza o meno della pasta diventa così la spia di un cambiamento di prospettiva ben più grande: il passaggio da “un’impronta coloniale, che dominava l’approccio alle altre culture del cibo, a un approccio che invece valorizza le identità gastronomiche locali. Basti pensare che ora le cucine possono anche diventare Patrimonio Immateriale dell’Umanità. La cucina può essere felicemente luogo di scambio e incontro tra popoli, come ad esempio dimostra un piatto come il ceviche”.