A Napoli il babà è una cosa seria, al punto da essere entrato nel linguaggio comune. Non è un caso che, se vuol farti un complimento per il tuo carattere dolce e disponibile, un napoletano ti dirà che “si nu' babbà”: e nello stesso modo potrebbe essere apostrofato un oggetto particolarmente bello, o magari un meraviglioso panorama. Il babà, insomma, è così importante da essere diventato un vero e proprio simbolo (non soltanto gastronomico) della città.
Con la sua inconfondibile forma a fungo, che pare essere stata ispirata dalla cupola della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, il babà è un dolce da forno a pasta lievitata imbevuto in un liquido alcolico (tradizionalmente rhum o limoncello).
LE ORIGINI DEL BABÀ
Benché nell’immaginario collettivo sia associato al Sud dell’Italia, il babà – il cui nome deriverebbe da quello di Alì Babà – trova le sue origini nell’Europa centrale: sembra infatti che alla corte del Ducato di Lorena il polacco Stanislao Leszczinski, suocero di Luigi XV di Francia avendone sposato la figlia Maria, amasse consumare una fetta di kugelopf, tipico dolce alsaziano dall’impasto simile al panettone ma senza uvette e canditi. Leggenda vuole che, stanco del solito sapore, avesse intinto il dolce nel Madeira, un vino marsalato e liquoroso: et voilà, l’antenato del babà è servito. Pochi anni più tardi il pasticcere di corte Nicholas Stohrer aprirà a Parigi – dove nel frattempo la famiglia reale si è trasferita – un laboratorio dolciario al numero 51 di rue Montorgueil: ancora oggi, in questo negozio, si fa la fila per il babà, servito a forma di ciambella con frutta fresca al centro e ora intinto nel rhum invece che nel madeira.
A portarlo a Napoli furono i “monsù”, come venivano chiamati gli chef che prestavano servizio presso le famiglie nobili napoletane. Si arriva così alla fatidica data del 1836, quando il babà appare come dolce tipico napoletano nel primo manuale di cucina italiana scritto da Angeletti.
Babà, qual è la vera ricetta?
Foto: ©Flickr / Stephen Bugno
Nasce il dolce e già compaiono le divisioni sull’esecuzione della ricetta. Una delle dispute più feroci riguarda liquore nel quale la pasta debba restare immersa, una volta cotta: il tradizionale rum o il liquore al limoncello tipico della costiera amalfitana? Anche se quest’ultimo, con la sua componente citrina, riesce a equilibrare degnamente l’imponente quantità di zucchero sciolta nel liquido alcolico i puristi non ci sentono. In fondo, la regola per l’autentico babà napoletano è una sola: deve bastare a se stesso. Una pasta lievitata sino a che non diventa nuvola, una notte di tempo ad asciugare, un lungo bagno nello sciroppo al rum. Null’altro: niente cioccolata, frutta, panna montata o marmellata spennellata sulla superficie per renderlo più lucido.
Nonostante le origini nobili, il babà è un dolce “democratico”: per gustarlo non servono posate, e neppure troppe cerimonie. Si tratta insomma di un dolce da passeggio, tre morsi e via.
Le sue interminabili tre lievitazioni non ne fanno un dolce semplice da preparare a casa: ecco perché è meglio comprarlo all’indirizzo giusto.
Come riconoscere il vero babà?
Semplice: deve essere privo di orpelli o decorazioni. Non troppo dolce, ma non troppo alcolico. Non troppo leggero (significherebbe che è asciutto all’interno), ma nemmeno troppo pesante per evitare che sia troppo imbevuto.