È stata appena premiata come Cuoco dell’anno 2020 a Identità Golose On The Road Digital Edition, prima donna nella storia a ricevere questo importante riconoscimento. Parafrasando Virginia Woolf, ha trovato una stanza, o meglio, una cucina tutta per sé Antonia Klugmann, nel suo ristorante L’Argine a Vencò, una stella Michelin nel cuore del Collio, poco distante dal confine sloveno. Chef di grande sensibilità e di grande cultura, è molto attenta alle tematiche della sostenibilità, e vive in perfetta sintonia con la natura che la circonda.
"Siamo il Paese con la maggior percentuale di donne stellate, la cucina è femmina più di altri Paesi qui in Italia, eppure non abbiamo mai premiato nessuna chef donna: non lo facciamo per un tributo mero all'altra metà del cielo, ma perché Antonia Klugmann ha creato una tavola colta e originale, che affonda le sue radici nel territorio, che però ha saputo plasmare con la contemporaneità", ha detto Paolo Marchi al momento della premiazione.
"Credo che debba essere il piatto a parlare di noi e ad essere al centro", ci ha raccontato Antonia Klugmann. "Oggi c’è tanta attenzione verso il cuoco come figura, ma vorrei che il cliente trovasse buoni i miei piatti a prescindere da me, a prescindere dal fatto che li abbia preparati un uomo o una donna". Perché ci sono ancora poche donne nei ristoranti? "Non riguarda solo la cucina il problema della percentuale di uomini e donne: il problema è fuori dalla cucina, non dentro. In passato sono stata spesso in brigate quasi esclusivamente maschili, ma non me ne sono nemmeno accorta, non prestavo attenzione a questo dato. Eppure, se ci faccio caso, al momento io stessa non ho donne in brigata: io ne vorrei avere di donne, mi farebbe davvero piacere avere una cucina mista, ma oggettivamente mi arrivano pochi cv di donne. Penso che dovremmo preoccuparci più dell’insieme, e non della percentuale singola. Perché non ricevo cv di donne? Questo è il problema: perché è ancora difficile per una donna esprimere se stessa attraverso il lavoro, a prescindere dalla professione? Quanto incide la vita, quali sono i meccanismi che portano una donna a vivere una vita professionale in maniera diversa? C’è sempre un problema di fondo", risponde. "È importante autodefinirsi con il proprio lavoro: per me la cucina è un rapporto di amore a due".
Le sue parole, cariche di consapevolezza, di coscienza di sé e del proprio lavoro, sono preziose non solo per le giovani leve della professione, ma anche per tutti quelli che sono in cerca di motivazioni. La chef ci restituisce un'analisi lucida della situazione attuale, senza trascurare l'aspetto più emotivo e passionale della cucina.
Ecco che la nostra intervista ad Antonia Klugmann.
È la prima volta che una donna vince il premio Cuoco dell’anno di Identità Golose: che significato ha per lei questo riconoscimento, tra l’altro in un momento così particolare?
Oltre alla Michelin, che premia con le sue stelle al di là del sesso, ci sono dei riconoscimenti ad hoc che vengono conferiti alle donne sulle varie guide, sia come miglior chef donna sia come titoli collaterali… Questa in effetti è la prima volta che Identità Golose premia una donna come miglior cuoco in assoluto. Ero già stata incoronata come Miglior chef donna in passato da Identità, quindi quando Paolo Marchi me lo ha annunciato mi è sembrato un sogno, non ci credevo: in genere io partecipo alla gara con tutti, ho sempre pensato che i premi specifici alle donne fossero per valorizzare e aiutare a rendere visibile una minoranza, ma non ho mai pensato che esista una cucina femminile e una cucina maschile da premiare separatamente. Penso che nei premi alle donne ci sia sempre la volontà di dare un aiuto. In questo caso Identità Golose mi ha aiutata a scavalcare un muro, magari inesistente, e mi rendo conto che hanno fatto un salto dal punto di vista della comunicazione. Ho sempre pensato a me stessa come un cuoco e basta, e sono stata fortunata nelle cucine dove ho lavorato, e nella mia: da sempre credo che la cucina sia uno spazio meritocratico, che al cliente interessa che il cibo sia buono e non chi l’ha preparato, e la stessa cosa vale per i colleghi in partita, a cui non importa che tu sia uomo o donna. Ho sempre detto che la giacca da cuoco che ci rende tutti uguale, in realtà definisce uno spazio democratico, dove conta solo quello che sai fare con le tue mani. Ringrazio la cucina che mi ha permesso di definire me stessa, e ringrazio Identità Golose che mi ha conferito un premio collettivo e non di genere.
L’anno scorso lo stesso riconoscimento è andato a Diego Rossi, che ha scelto il modello della trattoria contemporanea, quest’anno tocca a lei, la prima donna premiata: è un segnale che qualcosa sta cambiando nel mondo della cucina, secondo lei?
Parlando di me e delle donne, ho sempre detto che si tratta di una questione di tempo, affinché in cucina e nella distribuzione dei premi ci sia il cinquanta e cinquanta. Adesso sono basse le percentuali, ma cento anni fa in ogni ambito i numeri delle donne erano ancora più bassi, anche in altri settori, solo perché è l'evoluzione della società stessa che porta alla parità. Sono sicura che tra vent’anni aumenteranno le cifre, perché cambierà la società. Il problema è fuori dalla cucina in realtà, non in cucina. Per quanto riguarda il premio a Diego Rossi, credo che lui abbia fatto una scelta incredibile, ha anticipato i tempi (assieme a Giovanni Passerini, che a Parigi stava aprendo un locale con format simile), ma la formula della trattoria, che è proprio italiana, ed è ancora diversa da quella del bistrot, paradossalmente in Italia non c’era, e Diego ci è arrivato con una conoscenza della materia prima e con una tecnica pazzesche. In Italia il cliente per ogni tipo di cucina può avere l’eccellenza, e questo ha dell’incredibile: se un giorno scegli di andare a mangiare la cucina di trattoria devi poter mangiare bene, e se vuoi la cucina più creativa, allo stesso modo, devi poterlo fare.
Una sorta di “pluralismo della ristorazione”, mutuando il termine dal mondo dell’informazione.
Esatto, è un termine che mi piace, credo che sia il mercato a dire se tu ci puoi stare dentro o no, è la clientela che premia, ma questo non esclude che possano esistere tanti modelli e convivere, e valorizzarsi l’uno con l’altro, tra modelli di cucina, di servizio e di ristorazione diversi. Il nostro mondo più è vario e meglio è, nel rispetto del rapporto qualità-prezzo, che è sempre molto importante: sono finiti i tempi in cui il cliente si accontenta del nome e della fama dello chef, è fondamentale che il cliente abbia la sensazione di pagare il giusto: questo vale per tutto, per un crostino o per una marmellata, è una questione di qualità. La ricchezza dell'Italia è la complessità, un pluralismo di voci e di espressioni.
Parliamo della difficile situazione attuale del mondo della ristorazione: che idea si è fatta, secondo lei quale può essere il futuro del settore?
È dura sicuramente, perché in questo momento emerge la consapevolezza, molto chiara, di quanto possa essere diverso avere un ristorante in campagna o in una zona turistica, per esempio. Questa situazione ci ha fatto sentire tutti connessi, perché abbiamo vissuto tutti la stessa esperienza, ma ognuno è radicato nella propria realtà specifica, e da lì deve trovare la propria soluzione per uscire dall'impasse. Credo che non ci sia un modello da seguire, perché dipende dalla propria clientela, dall’ambiente in cui si trova la propria attività, da tante variabili differenti insomma. Non è uguale per tutti, ma con la nostra creatività possiamo darci delle chance per trovare delle soluzioni che sono fortemente individuali: questa situazione da un lato mi fa paura, ma dall'altro è esaltante, perché dà la possibilità di tracciare una strada nuova.
Per esempio, lei ha ideato il delivery Antonia a casa, durante il primo lockdown: come è stata l’esperienza?
Mi sono sentita fortunata, perché ho una clientela locale affezionata, che mi è stata vicina, e non è scontato. Mi ha sostenuto durante il delivery, eppure non ho mai fatto cucina casalinga. Abbiamo lavorato con il tutto venduto per un mese, l’ho preso come un regalo della clientela, e l’ho ringraziata. E poi, appena abbiamo riaperto, ho avuto sempre il fully booked. E questo mi rende più forte perché è speranza, il primo lockdown ci ha colpito, ero spaventata, mi chiedevo come sarebbe stata la riapertura, come sarebbe cambiata la socialità al ristorante, se la gente sarebbe venuta: e invece, quando ho visto la gioia di tornare al ristorante, ho capito che questo aspetto di convivialità rimarrà sempre. Poi, non sappiamo cosa succederà in futuro, le condizioni economiche magari saranno peggiori, ma ho capito che la gente ha voglia di uscire. Il problema è che il covid non è meritocratico, nel senso che ci sono realtà più meritevoli di me, o magari semplicemente localizzata in un posto “sbagliato”, che sono in grande difficoltà. E questo mi dispiace tanto, i cuochi sono tutti fratelli: so che ci sono persone brave in difficoltà. Al momento il Friuli Venezia Giulia è una regione arancione, abbiamo appena chiuso il ristorante, non sappiamo cosa succederà a dicembre, siamo preoccupati.
Pensa che la formula del delivery rappresenti il futuro prossimo della ristorazione?
Dal mio punto di vista non esiste un format uguale per tutti e non esiste che un modello di ristorazione venga abbandonato tout court per la crisi. Di sicuro sarà necessario stare attenti al rapporto qualità-prezzo, e di sicuro il cliente sarà sempre più consapevole nella ricerca della qualità. Questo perché oggi il cliente cucina di più, ed è sempre più informato sul percorso della materia prima. Tutte le statistiche dicono che c’è maggior interesse nell'acquisto della filiera chiara (trasparente, ma non per forza corta), e questo è un aspetto molto interessante che ci porteremo dietro: un processo che ha subito un’accelerazione quest’anno, proprio perché la gente è stata molto a casa a cucinare. Quando ho iniziato a fare il delivery, ho pensato di portare casa degli abitanti del Friuli la cucina del territorio e della mia infanzia, per come la poteva vedere un professionista come me: pochi grassi, super leggera, inserendo il più possibile i prodotti dell’orto, dalle polpette al sugo, agli spatzle di bieta, alle tagliatelle al ragù.
Quali sono le ricette che il pubblico ha più apprezzato, e perché? Ripeterà l’esperienza?
La gente è andata letteralmente fuori di testa per le lasagne con le verdure, per il goulash, per le guance brasate, per gli gnocchi di mele, e per le mele cotte in brodo di mela. I prezzi andavano dagli 8 ai 15 euro massimo, e le persone erano contente. Durante il lockdown c’era un grande bisogno di comfort food, ma fatto con amore e attenzione ai dettagli. Abbiamo effettuato al massimo cento consegne al giorno, in modo da poterle gestire bene. Il lunedì pubblicavo il menu delivery per il weekend, e il giorno dopo spesso era già sold out. Quest'attività mi ha permesso di richiamare metà staff dalla cassa integrazione, tra l’altro. Lo rifarò? Dipende da quanto durerà il lockdown… Prima di decidere in maniera definitiva cosa fare, voglio capire l’andamento del virus.
È nata a Trieste, città di frontiera per eccellenza, e ha aperto il suo ristorante a due passi dalla Slovenia: che cosa significa fare una “cucina di frontiera”, e quanto è influenzata dal vicino confine?
Mi sento profondamente triestina, ho un nonno di origine ebraica-mitteleuropea, un altro nonno pugliese, poi ho una nonna di Trieste e un’altra di Ferrara. Ho un mix molto italiano dentro di me, anche perché la cucina triestina e mitteleuropea è molto diversa dalle altre. La cucina di territorio per me è ciò che ho davanti, quindi l’ingrediente reperito il più vicino a casa, profondamente italiano, interpretato attraverso la mia storia personale, ed è una continua relazione e mutamento tra dentro e fuori, tra ciò che si ha dentro e ciò che ci circonda insomma. È come tu cambi nel corso della vita a spingere a un continuo mutamento: ecco perché l'analisi di sé credo che faccia parte del proprio percorso professionale. Il luogo dove sono nata e il luogo dove abito per forza influiscono su di me e sulla mia cucina. Vivere sul confine ti influenza, per sei secoli Trieste non è stata italiana, e in questi sei secoli tutte le culture si sono stratificate rispettando le differenze: dalla cultura ebraica a quella turca, a quella italiana incrociata con la mitteleuropea. È molto interessante la storia della cucina di confine, ma dall’altra parte mi sento profondamente italiana e spero che tutto questo si rifletta nella mia cucina.
Tra l’altro il suo ristorante è in provincia, in piena campagna.
Vivo in provincia, ma posso prendere un volo ed essere dall’altra parte del mondo in poco tempo, leggere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, continuare a cercare cose nuove, ed è giusto così: cerchi di essere il più possibile informato, ma al contempo devi essere autonomo. La campagna ti viene in aiuto perché hai dei ritmi diversi e ha pure un’autonomia diversa rispetto alla città: in campagna, per esempio, non è percepito ciò che è di moda, ma bisogna offrire qualcosa che sia originale perché la gente venga. Non posso offrire ciò che offre un ristorante in centro a Milano, per me l'originalità si interseca con il concetto di autenticità, che giustifica il viaggio per venire da noi. Devi venire in campagna con la conapevolezza che ti posso offrire qualcosa di autentico e originale che però nel contempo è moderno. La sfida è rimanere connessa, sapere cosa accade, non essere imitativa, ma originale: questa è la parte più bella e allo stesso tempo più difficile del mio lavoro.
Nella sua comunicazione emerge sempre in maniera molto forte il suo attaccamento al paesaggio che la circonda. La sua cucina per esempio è completamente affacciata sulla campagna: quanto conta il feeling con la natura, che peso ha e come la influenza?
La bellezza aiuta, e il mio pensiero va sempre a Virginia Woolf e al suo volume Una stanza tutta per sé per parlare della libertà - nel libro la scrittrice si interroga sul perché ci sono poche scrittrici donne e perché non sono così creative, e parla dello spazio che ha comprato per avere una bolla tutta sua, fertile per la sua creatività. Analogamente, quando ho preso lo spazio per il mio ristorante, ho pensato prima a me, a cosa mi faceva stare bene con il cliente. La bellezza è importante, la natura è diventata parte integrante, come il foraging, che è una pratica molto diffusa in cucina, che ho tradotto in maniera sostenibile in cucina: da noi si raccolgono solo erbacce, il messaggio è la freschezza e l'unicità. Sul mercato puoi comprare quasi tutto a livello di erbe aromatiche, ma le erbacce come il trifoglio, la stellaria, certe varietà di artemisia, o la piantaggine, sono molto comuni e non si trovano in commercio, ed è lì che lavoro io.
Alla luce del premio importante che ha ricevuto oggi, cosa vorrebbe dire a una giovane donna che vorrebbe diventare una chef, ma che non ha il coraggio di lanciarsi?
Sa quante volte vengono genitori che chiedono consigli per i figli che vogliono fare questo lavoro? Rispondo sempre che non ho la formula del successo. I miei genitori mi hanno sostenuta e aiutato praticamente nel momento in cui ho deciso di aprire il ristorante, ma quando ho deciso di lasciare l'università e di fare l'imprenditore, non mi hanno detto "andrà bene", ma che “la cucina è un lavoro concreto, dovrai guadagnarti da vivere, quindi fallo bene. Le persone mangeranno sempre, dunque troverai sempre un lavoro". Hanno messo bene in luce le caratteristiche della scelta che stavo per fare. Studiare sempre, non sentirsi mai soddisfatta per andare avanti. Massimo Recalcati dice sempre "Mantieni il bacio", per suggerire di mantenere sempre viva la passione nel rapporto amoroso. Ecco, come creativa credo che questa sia la formula per mantenere sempre la passione quotidiana anche nel lavoro. Perché la passione è innata ma la devi coltivare. Io sono innamorata della cucina come il primo giorno, dopo 20 anni. E questa è la più grande fortuna che si possa avere. A una giovane donna, dunque, direi di avere il coraggio di auto-definirsi, di non credere che la definizione che gli altri danno di noi sia più importante della nostra definizione. Auto-definirsi, sia per gli uomini sia per le donne, è la cosa più importante, perché dà la vera libertà, l’indipendenza. L’autonomia mentale fa crescere sempre di più. Possiamo cambiare, essere diversi nel tempo, ma il lavoro è una forma di conoscenza di sé: attraverso quello che si fa ci si mette sempre in discussione, e questo fa parte della gioia della vita.
E invece, in generale, che consiglio si sente di dare per superare questo momento di difficoltà ai giovani chef?
Cercare di essere il più lucidi possibile e affrontare le proprie paure andando a fondo. Le crisi economiche sono difficili da superare, non esiste una chiave. Nelle crisi della mia vita ho trovato delle chiavi per conoscere meglio me e chi mi stava intorno. Ma bisogna avere pazienza e non pensare che si risolva tutto in fretta, qualche volta prendersi il proprio tempo è necessario per riflettere e trovare la soluzione giusta.
Ma c’è ancora qualcosa che vorrebbe realizzare?
La cucina mi ha regalato sempre tutto quello che desideravo: io sono innamorata della cucina, e la cucina mi restituisce l’amore, è un rapporto a due, sono molto grata al mio destino, credo veramente di non aver fatto ancora nulla. Ho la sensazione di non essere conclusa, guai a sentirsi conclusi, ma questo per me non significa sentirsi a disagio.