La laurea in Economia, l’esperienza in cucina come cuoca, poi la passione per l’arte dolce e il sorriso stampato in faccia. Carmen Vecchione è una delle più grandi pasticciere che abbiamo in Italia. Ha trasformato la sua boutique di Avellino, Dolciarte, in una mecca per tutti i golosi dell’Irpinia e non solo. Il suo segreto? L’entusiasmo inarrestabile e la passione che riesce a trasmettere in tutto quello che fa, ma anche lo studio e l’aggiornamento continuo.
Sin dalla prima ora fa parte dell’Accademia dei Maestri del Lievito Madre e del Panettone Italiano e, da pochi giorni, ha superato l’esame di ingresso in AMPI - Accademia Maestri Pasticceri Italiani: è una delle poche donne che fanno parte dell’associazione, che, sino a un mese fa, contava una sola presenza femminile, nella figura di Silvia Federica Boldetti. Attualmente le donne accademiche sono quattro e ci piace pensare che questo sia solo l’inizio di una lunga tradizione.
Come si diventa una grande pasticciera? Affascinante la storia di Carmen: ha lavorato prima in cucina, passando per la corte di Lino Scarallo, all’epoca al ristorante La Maschera di Avellino (oggi alla guida del ristorante stellato Palazzo Petrucci a Napoli), poi dedicandosi alla pasticceria, il suo grande amore. Due sono gli ingredienti, e i relativi ambiti, che hanno fatto capitolare definitivamente Carmen al cospetto dell’arte dolce: il cioccolato e il lievito madre.
Oggi gestisce una squadra tutta al femminile, composta da dieci persone, “al momento sono tutte donne, tranne uno stagista”, precisa. L’abbiamo incontrata in occasione di Identità Golose 2022, dove ha tenuto un’interessante lezione su una tartelletta robiola e lampone. Il suo progetto futuro? "Il confronto: è stato l’elemento che mi ha fatto crescere di più. Sento che devo fare un altro passo in questa direzione, per completare il mio percorso”.
Ecco che cosa ha raccontato Carmen Vecchione a Fine Dining Lovers.
Foto Brambilla Serrani
Prima di dedicarsi alla pasticceria ha conseguito una laurea in Economia, poi ha iniziato a lavorare in cucina come cuoca: quanto sono servite queste esperienze per la sua attività di oggi?
Lavorare in un ristorante mi è servito tantissimo, perché dà un’apertura mentale notevole, soprattutto per l’uso degli ingredienti: io ho un approccio all’arte dolce diverso dalla pasticceria classica, non perché non mi piaccia (anzi, odio la distinzione tra pasticceria classica e moderna), ma perché uso prodotti e abbinamenti diversi. Lo stesso ragionamento vale per i miei studi in Economia: più cose fai nella vita e più accresci il tuo bagaglio culturale e personale di conoscenze. Certo, potevo accorciare i tempi nell’ambito della pasticceria tagliando gli anni dell’Università, ma se tornassi indietro farei la stessa cosa, perché ho avuto la possibilità di approfondire e conoscere tanti aspetti. Io ho una mente molto imprenditoriale: ho iniziato la mia attività sapendo quello che volevo, inoltre vengo dalla ragioneria e questo pregresso mi ha aiutato nella gestione della pasticceria.
Pasticciera per vocazione, dunque. Ma quando è scattata la molla per cui ha deciso di dedicarsi completamente al mondo del cibo?
Mi ricordo una scena: guardavo le premiazioni di una guida gastronomica in televisione, piangevo con il libro di diritto commerciale in mano e pensavo “ma io voglio fare quello”. Poi, alcune situazioni non positive mi hanno fatto capire che nella vita bisogna fare ciò che si ama, dedicarsi a qualcosa che ti fa alzare tutti i giorni con il sorriso in faccia. Così, ho deciso di lanciarmi nel settore e, se guardo indietro, mi rendo conto che ho fatto un lavoro pazzesco, grazie anche alle forze che avevo allora, a 27 anni, quando ho iniziato.
Per chi vuole conoscerla, quali sono i tre dolci iconici che rappresentano il suo passato, il suo presente e il suo futuro (e che deve assaggiare)?
Il Sottobosco, un dolce che ho ideato quando lavoravo al ristorante La Maschera, che ho trasformato da dessert al piatto a torta (mia) di nozze, a mignon, a monoporzione e torta, ancora presente in pasticceria. I dolci del presente sono i lievitati: dai piccoli pezzi per la colazione ai grandi lievitati come panettone e colomba. Il futuro per me è il cioccolato, un ingrediente cui sono molto legata: vorrei specializzarmi ancora di più nell’ambito della pralineria, investendo più tempo per approfondire le mie conoscenze.
È entrata in AMPI nell’ultima sessione di esami, assieme ad altre due pasticciere donne: in totale, ora, ci sono 4 donne accademiche. Un passo avanti, ma la presenza femminile è ancora scarsa sul totale. Perché ci sono così poche donne pasticciere in istituzioni come AMPI?
Bisogna presentare la domanda per essere ammessi in AMPI, e probabilmente c’è ancora chi teme questa accademia. Poi va detto che è negli ultimi anni che c’è stato un boom di donne in pasticceria: credo sia questione di dare tempo al tempo e vedremo una bella rimonta della presenza femminile. Come ha detto Bottura nel suo intervento a Identità Golose 2022, non è più tempo per fare distinzioni tra chef donne e chef uomini: è giusto parlare di talento. Ma lo sappiamo tutti che, purtroppo, anche nel 2022, la figura della donna non è ancora considerata in maniera adeguata: c’è tuttora molto lavoro da fare.
Eppure, nelle scuole di pasticceria, le aule sono piene di donne… Ma perché, nei concorsi o nelle situazioni ufficiali, poi, emergono solo gli uomini?
Io stessa insegno in una scuola e confermo che sono tantissime le donne che studiano per diventare pasticciere. La buona notizia è che quest’anno, nella squadra che rappresenterà l’Italia alle selezioni per la Coupe du Monde de la Patisserie 2023, ci sarà per la prima volta una donna (Martina Brachetti, nel team assieme a Jacopo Zorzi e Alessandro Petito, ndr). Ma in realtà c’è una ragione di fondo: il vero problema è che noi viviamo in un Paese dove la donna lavoratrice non è tutelata. Basti pensare che ad Avellino non esiste un asilo nido comunale. Chi vuole lavorare, deve mandare il figlio all'asilo nido privato, che per me è impensabile, non è naturale. Io stessa ho aspettato un po’ di tempo prima di avere i figli, perché con un’attività come questa non potevo mettermi in maternità e prendere 250 euro al mese: chi trovavo disposto a sostituire la mia figura a questa cifra, all’inizio del mio percorso? Lo Stato vede ancora la donna come colei che deve dedicarsi alla famiglia e, se vuole lavorare, si deve arrangiare. Oppure, alle donne si dice di fare lavori come l'insegnante: il problema è la forma mentis, ma deve cambiare dall’alto, prima di cambiare nel resto.
La sua squadra è tutta femminile, tra l’altro…
Se io avessi più spazio, creerei un asilo nido per le mie dipendenti. Ti senti perennemente in colpa perché sei cresciuta con l’idea che sei la madre e non devi trascurare i figli… è una questione delicata. Poi, sono d’accordo su quanto si dice, che non bisogna prendere le donne a lavorare solo perché sono donne, ma per una questione di talento. Adesso, per esempio, so che una mia collaboratrice si trasferirà in un’altra città, dopo cinque anni, e mi dispiace tantissimo. Non perché devo rifare la squadra, ma perché so quanto sarà difficile per lei trovare un lavoro con un titolare che abbia un’apertura così grande allo spirito della donna.
Ma è una scelta quella di avere tutte donne in squadra o è un caso?
Io mi sono sempre trovata molto bene a lavorare con le donne, a dispetto di chi dice che le donne non fanno gruppo. Anche in passato io ho avuto solo collaboratrici donne, tranne una volta. Diciamo che ho sempre cercato figure femminili, ma poi sono sempre state le donne ad avvicinarsi a me. E me le sono ritrovate: se dovessi scegliere, darei voce sempre alla preparazione, prima che al genere, ma ammetto di trovarmi molto bene a lavorare con le donne. Anche a Identità Golose 2022, ho voluto portarle tutte con me, per un aggiornamento professionale: per me è importante fare gruppo e fare famiglia, organizzo sempre cene con le mie ragazze. Nel mio caso, è la legge dell’attrazione che ha funzionato sino ad ora con le donne.
Qual è il rapporto con la provincia? C’è o c’è stata una difficoltà nel proporre alta pasticceria ad Avellino?
Non è semplice lavorare ad Avellino, perché siamo come in un paese dove l’erba del vicino è sempre più bella e più buona. L’Irpinia è un territorio difficile, a poca distanza da Napoli e da Salerno, città molto affascinanti. Una catastrofe come il terremoto (quello del 1980, che ha devastato l’Irpinia, ndr) segna profondamente il territorio: ci sono paesi che sono stati interamente ricostruiti altrove. Ricreare una cultura, dunque, è stato difficile. Ora che la situazione sembra si sia stabilizzata, bisogna cominciare a promuovere l’Irpinia. La nostra regione ha due città molto importanti e di richiamo, ma l’Amministrazione dovrebbe aiutare a fare emergere anche le altre province, che hanno tanto da raccontare. Non siamo ancora una città turistica, ma Avellino ha tre docg in provincia, abbiamo tantissime cantine, aziende di formaggi, di salumi e di carni: dovremmo scommettere sul’enogastronomia, anche se non siamo ancora decollati.
Ma qual è la percezione della sua pasticceria, nel cuore dell’Irpinia?
La percezione è che sei una pasticceria molto cara ma molto buona, però io faccio molta comunicazione. Parlo sempre tanto con i miei clienti per spiegare i prodotti e le collaboratrici al banco sono molto brave, perché riescono a illustrare benissimo i dolci. I dessert sono un surplus, lo sappiamo, non è il pane che è necessario: se non fai innamorare il cliente di qualcosa… perché dovrebbe venire da te? Quello che si fa va assolutamente spiegato: noi vendiamo sogni e piaceri, bisogna essere così, altrimenti non si va avanti.
Il settore della pasticceria ha retto all’impatto del covid: c’è qualcosa, in particolare, che ha imparato dalla pandemia?
Noi in Campania siamo stati chiusi i primi due mesi, saltando Pasqua: è stato drammatico. Io, però, ho imparato tantissimo: più un fatto personale che professionale. Ho capito, per esempio, che i rami secchi vanno tagliati, che bisogna concentrarsi sulle cose più importanti e bisogna migliorarsi in quello che si ha, portandolo alla perfezione. Se fai qualcosa, lo devi fare nel migliore modo possibile: è l’obiettivo che mi sono prefissata. Se mangio un croissant deve essere perfetto, altrimenti meglio evitare. Una sorta di maniacalità, che però fa bene al laboratorio, dove ho bisogno di stare più tempo. Mi sono dedicata all'essenziale durante la pandemia: ho cercato di migliorare i dolci, cambiato tante tecniche, ho eliminato alcune linee. Non essendo più in corsa, ho trovato un obiettivo personale: migliorare ciò che avevo, la crescita è stata essenziale.
Perché negli ultimi anni la gente si è avvicinata così tanto alla pasticceria?
La tv ha fatto il suo, perché ha ammaliato il pubblico con dolci bellissimi, senza mostrare il lavoro che c’è dietro. Ma questo non va demonizzato, perché, anzi, ha aiutato il settore della pasticceria a farsi conoscere e a crescere. Ha fatto crescere anche la clientela, che è molto più preparata e competente di un tempo, a capire che i puntini che trovi nella crema pasticciera sono la vaniglia, per esempio, che è una bacca e non una bustina.
Che consiglio darebbe a una giovane pasticciera che ambisce a raggiungere i suoi livelli?
Di puntare all’essenziale, di cominciare dalle basi, senza guadare l’effimero: prima delle torte bellissime e perfette, inizia a costruire le fondamenta del tuo palazzo. Se sei sicuro nella tua vita, non puoi sbagliare. Se sbagli è perché quell’errore ti doveva fare crescere: conoscere e imparare le tecniche è la cosa più importante, senza arroganza.