Dopo tante esperienze di rilievo, da quella del Grand Hotel Villa Serbelloni sul Lago di Como a quella di Villa Feltrinelli sul Lago di Garda, Matteo Ferrario si afferma come giovane promessa della ristorazione da Terrazza Triennale - Osteria con Vista, sotto la guida di Stefano Cerveni.
Oggi guida la cucina del Jazz Café, tra i locali più noti di Milano, dove ha portato il suo approccio essenziale e attento alla materia prima italiana.
Così ha raccontato il suo percorso a Fine Dining Lovers.
Come ha iniziato ad avvicinarsi al mondo della ristorazione?
Mio padre era un direttore d'albergo e il suo ambiente di lavoro mi aveva da sempre incuriosito. Con il tempo cominciai a capire che ero però più portato a stare in cucina, tra pentole e fornelli, piuttosto che in mansioni a diretto contatto con il pubblico. Avevo quindici anni quando iniziai a girare, per formami a partire dalle basi, in hotel 3 stelle. Dopo il diploma sono entrato nella squadra di Maio Restaurant, all'interno di Rinascente, a Milano. Fu stupefacente perché all'epoca quel ristorante era in fase start-up ed ogni giorno per me era una scoperta.
E quando è arrivata la svolta gourmet?
Più che svolta fu un upgrade, un passaggio che mi servì per imparare. Approdai così al Mistral del Grand Hotel Villa Serbelloni, al fianco di Ettore Bocchia. Appresi nozioni e tecniche che forse non ero ancora pronto a ricevere: ero giovanissimo, sapevo a malapena come si facevano degli gnocchi di patate classici e mi ritrovai a doverli preparare molecolari, senza farina.
Quindi non si è trattato di una scelta irreversibile. Cosa cerca in un ristorante perché le interessi lavorarci?
Voglio continuamente crescere, sono affamato, voglio imparare le tante cose che non so. Posso rimanere in un posto per parecchio tempo, quando lo faccio è perché la stabilità di tanto in tanto mi rigenera fisicamente e mentalmente, ma poi mi dirigo verso il prossimo obiettivo. In un ristorante devo stare bene, essere a mio agio e credere in ciò che faccio, per questo ho alternato realtà così differenti, dall'Antica Trattoria Goi di San Martino Siccomario a Villa Feltrinelli e il Ristorante Capriccio sul Garda. Ancora Al Demetrio di Pavia, L'Assassino e Terrazza Triennale - Osteria con Vista a Milano.
Quali sono le esperienze che l'hanno maggiormente formata come chef?
Tutt'oggi la chiamata che più di tutte mi ha segnato è stata quella di Stefano Baiocco a Villa Feltrinelli. Lì affrontai una stagione impegnativa che mi arricchì molto. Stefano, umanamente e professionalmente, è il mio chef di riferimento. Fondamentali sono stati anche gli anni da Terrazza Triennale - Osteria con Vista, arrivai come secondo di Fabrizio Ferrari, allora executive chef di Stefano Cerveni nell'indirizzo meneghino. Quando Ferrari decise di prendere in mano le redini di Unico Milano, lo chef Cerveni mi diede la grande possibilità di prendere il suo posto.
Il grande pubblico gourmet l'ha infatti conosciuta soprattutto per il suo lavoro accanto a Stefano Cerveni. Cosa porta con sé degli anni a Terrazza Triennale - Osteria con Vista?
Il ruolo di executive chef lì mi ha permesso nel tempo di smussare molteplici aspetti del mio carattere. La cucina di Terrazza Triennale - Osteria con Vista non è soltanto interamente a vista, ma è priva di vetri. Non propriamente un dettaglio trascurabile per un cuoco che talvolta si arrabbia. Ho imparato certamente a gestire stress ed emozioni.
Poi cos'è successo?
Ho deciso di cambiare, sono andato a lavorare al T'a della famiglia Alemagna. Un'esperienza che si è conclusa prima del tempo a causa di un imprevisto chiamato Covid. Oggi sono lo chef del Jazz Café.
Una realtà con una marcata componente ludica, ancor prima che gastronomica. Qual è stato il suo approccio alla cucina del Jazz Café?
Ho pensato che sarebbe stato interessante reimpostare la cucina seguendo quello che è un mio format che funziona: tre o quattro ingredienti nel piatto, tutti di altissimo livello e riconoscibili al palato. Tutto questo rimanendo coerenti all'offerta giocosa del locale.
Come si presenta quindi oggi il menu del locale?
L'impronta italiana è certamente più marcata, il menu ha un respiro internazionale ma mette un po' da parte il concetto di fusion. Devo dire che la proprietà è molto aperta al confronto, viene incontro alle mie proposte e alle mie idee. Io faccio altrettanto, lasciando giustamente in carta alcuni piatti iconici del locale che la clientela richiede sempre a gran voce. E poi c'è molto uso della griglia, apprezzatissima da chi frequenta il Jazz Café.
Se dovesse usare tre aggettivi, come descriveresti la cucina di Matteo Ferrario oggi?
Semplice, golosa, italiana. La mia è una cucina d'impatto che vuole colpire senza troppi fronzoli.