Matteo Zed è tra i nomi caldi della mixology italiana e internazionale. Un inizio dal basso, quando ancora non esistevano nemmeno i cocktail bar a cui siamo abituati oggi fatti di reggi maniche e cravatte. Un inizio dai club, dove si servivano più di 400 cocktail ogni sera. Da quel punto, Matteo si è fatto largo tra il Giappone, l’Italia e gli USA alla corte di Bastianich e Batali a Del Posto in quel di New York.
Oggi è ritornato in Italia, a Roma, dove ha aperto The Court un bar d’hotel vista Colosseo all’interno di Palazzo Manfredi con tanto di ristorante una stella Michelin (Aroma, capitanato dallo chef Giuseppe Di Iorio). Recentemente il suo Grande Libro dell’Amaro Italiano (Giunti, 224 pagine) - una sorta di enciclopedia che racchiude i migliori e i più sconosciuti amari in Italia - è entrato nella lista dei migliori libri di settore per Tales of the Cocktail, fondazione di settore che premia ogni anno diverse categorie di professionisti nel mondo della mixology mondiale. In attesa di sapere se vincerà anche il premio di miglior libro sulla cultura dei cocktail questo giugno, l’abbiamo intervistato.
Partiamo dall’inizio: qual è la storia di Matteo Zed?
Matteo ha iniziato come si cominciava negli anni ’90: dai club, anche non eccellenti. Roma, Riccione Ibiza, fino a quando ho capito che fare il bartender mi piaceva e volevo alzare l’asticella. Sono approdato al 45 Giri, un club ambitissimo romano (che ora non esiste più, ndr), dove ho trovato bartender bravissimi con cui ho iniziato a capire davvero cosa fosse la mixology. Drink studiati, frutta fresca, niente sciroppi già pronti: pensavo che fare da bere fosse solo alcol e velocità, ma non era così.
Tra le tue esperienze ce ne sono di illustri all’estero.
Una volta che la mentalità di un po’ tutti noi bartender di quel periodo stava cambiando, mi sono trovato al Bar Show di Berlino davanti a Hidetsugu Ueno, tra i massimi bartender al mondo di stanza a Tokyo. Volevo lavorare per lui a tutti i costi, capire il modo di miscelare in Giappone e così sono riuscito a farlo: per un mese ho lavorato nel suo High Five e gli sono stato incollato assimilando ogni gesto, sviluppando una passione per le tecniche giapponesi (tagliare il ghiaccio da un blocco, spremere succhi dalla frutta fresca, preparare un cocktail prendendosi i propri tempi). Da lì è partita la mia vita, possiamo dire: sono arrivato in finale a una gara importante a Puerto Rico, ho iniziato a lavorare da Settembrini, che a quei tempi aveva un ristorante con stella Michelin per poi approdare a New York, da Del Posto, alla corte di Joe Bastianich.
Sentendoti parlare, New York è stata l’esperienza che più ha definito il tuo modo di lavorare...
A New York sono stati quattro anni durissimi, ma mi sono divertito molto. A Del Posto, ristorante quattro stelle del New York Times, mi hanno demolito e ricostruito. Nonostante la mia esperienza mi hanno fatto partire come water guy: servivo l’acqua ai tavoli prima di passare al bancone. Contemporaneamente ho lavorato anche in due cocktail bar molto importanti e diversi da Del Posto: il Dead Rabbit (tra i migliori bar al mondo, ndr) e il BlackTail, fino ad approdare come capo barman da Zuma. È in questo periodo che mi sono appassionato agli amari: in USA, o almeno a New York, gli amari italiani sono molto rispettati e amati. È nata una passione che mi ha portato ad aprire prima un amaro bar a Roma e poi a un intero libro sull’argomento.
Quando sei rientrato a Roma, la prima cosa a cui hai lavorato è stato un amaro bar. Perché?
Sono rientrato dall’America con delle competenze maggiori: prima non avrei potuto fare una consulenza sugli amari o scriverne addirittura un libro. Ma mi ero fatto un nome per quanto riguarda gli amari, presentandone sui social e poi su un blog, Amaro Obsession (il primo portale sugli amari al mondo). E ho capito che potevano essere parte fondamentale della mixology, quindi ho curato il progetto de Il Marchese, selezionando centinaia di etichette di amari.
L’amaro bar è però stato solo l’inizio della tua nuova carriera a Roma.
Sì, a dire il vero venni in Italia per aprire il The Court, il bar dell’hotel Palazzo Manfredi. Ho sempre voluto lavorare in un hotel perché mio padre è stato per una vita Chief Concierge di alcuni tra gli hotel più lussuosi. La location internazionale, il fatto che l'hotel avesse un ristorante stellato e rientrasse nel circuito Relais Châteaux e la vista sul Colosseo dal bar, mi fecero realizzare che potevo trasportare gli eleganti salotti statunitensi a Roma. Ho portato l’eleganza del servizio di Del Posto e la manualità e la miscelazione del Dead Rabbit. Sono molto contento di questa nuova avventura.
Che generi di cocktail si possono trovare sulla vostra drink list al The Court?
Al The Court ho cercato di mettere tutto ciò che ho imparato negli anni. Miscelazione di livello e grande ospitalità. La prima lista era fatta di pochi cocktail ma fatta di prodotti premium. Con quella nuova vogliamo sorprendere: sarà incentrata sul Cocktail Lab. Ridistillazione e fermentazione per esempio, senza dimenticare i nostri signature. E senza dimenticare gli amari, che rimangono sempre una passione e troveranno grande spazio. L’Amaretto Colada sarà tra i nuovi cocktail, fatto con Rhum invecchiato e Amaretto con acqua di cocco e un cordiale all’ananas. Faremo uno Spicy Paloma, con una speciale release piccante di Amaro del Capo. E ancora, per dare anche un’esperienza di livello, abbiamo rivisitato un Old Fashioned con Rye Whiskey, Cognac e Tartufo. Ci sono anche molte guest di bar e bartender internazionali.
La passione per gli amari è diventata un libro, Il Grande Libro dell’Amaro Italiano. Ti aspettavi finisse nella lista delle migliori pubblicazioni di Tales of the Cocktail?
Assolutamente no, è stata una sorpresa. Ma non sapevo nemmeno che avrebbe venduto così tanto. Ho fatto questo progetto con Giunti, che è sembrata molto interessata, ma non mi aspettavo le vendite che ha fatto. Sono molto contento. Anche perché questo libro è stato un grandissimo sacrificio e una bella sfida: con il blog avevo pronte 150 schede di amari, ma l’editore me ne ha richieste il doppio e in tempi brevi. Fortunatamente, lavorandoci notte e giorno e insieme alla mia collaboratrice Martina Proietti, siamo riusciti a finire in tempo.
E come vengono raccontati gli amari?
Non esistono delle vere e proprie categorie negli amari, quindi ho cercato di suddividerli io. C’è la categoria degli amari agrumati, quella degli amari corroboranti, balsamici, medicinali, medi, vegetali, dai sentori di radice, ecc.
Amaro preferito?
Beh, gli amari veramente amari. Come il Petrus.