Nelle sue parole si legge tutto l'amore e la passione per la cucina. Un lavoro che affronta con devozione e coscienza, e con il cuore di chi ha interiorizzato vecchie pratiche che riportano alla concezione del "fatto bene", traghettando la tradizione nella modernità in maniera impeccabilmente neoclassica. Allievo prediletto di Gualtiero Marchesi, Paolo Lopriore, attualmente alla regia de Il Portico di Appiano Gentile (Como), è uno dei grandi protagonisti della scena gastronomica contemporanea.
Paolo Lopriore è uno dei relatori a Identità Golose On The Road Digital Edition: dal 16 novembre, il suo intervento sarà disponibile sulla piattaforma online creata ad hoc per questa edizione speciale di Identità Golose.
Noi l'abbiamo incontrato in occasione delle registrazioni, approfittandone per fare due chiacchiere: abbiamo parlato del momento difficile per il settore, del futuro della ristorazione, ma anche della cultura gastronomica necessaria per affrontare al meglio il mestiere di cuoco.
Ecco cosa ha raccontato Paolo Lopriore a Fine Dining Lovers.
Dal Dpcm del 25 ottobre che imponeva la chiusura alle 18 alla chiusura totale per la zona rossa: cosa ne pensa?
Io, paradossalmente, con il mio ristorante ho più clienti a pranzo che a cena, che spesso è una colazione di lavoro. Quindi, quando inizialmente hanno consentito di restare aperti a pranzo, per me non andava così male. Ma c’è tutto un sistema da salvaguardare, per cui il mio commento è: forza, abbiamo una grande professionalità e un grande valore, dobbiamo giocarci le nostre carte, tra delivery, take away e tutto quello che si può fare, con tutti noi stessi.
Come si è organizzato per affrontare questa situazione difficile?
Già prima della pandemia io facevo l’asporto la domenica. Quindi, nel momento in cui sono stato costretto a chiudere il ristorante, ero già preparato per affrontare il servizio take away, e l’ho riproposto a marzo, aprile e maggio. L’ho ripreso dal 16 settembre, funziona molto di più del delivery, perché siamo in un paese piccolo e la gente preferisce il take away.
Secondo lei quale può essere il futuro della ristorazione?
Io credo che non ci saranno grandi cambiamenti, ma sta a noi tenere duro: abbiamo la forza per cucinare qualsiasi cosa. Dobbiamo farcela e dobbiamo dimostrare che siamo dei professionisti: lo sconforto non deve sovrastare la voglia di fare. Questa è la mia visione.
Ho visto che ha promosso un menu a 35 euro prima del lockdown: come è nata questa iniziativa?
Il menu a 35 euro è nato secondo la filosofia del “pane e companatico”, per cui proponevo una pietanza centrale importante come un riso, una polenta o un timballo di crespella, e vicino mettevo dei satelliti con cui comporsi il piatto. È nato quando hanno imposto la chiusura alle 23 per il coprifuoco: è rimasto attivo solo tre giorni, ma ha funzionato molto bene. L’ho proposto per attirare chi abita vicino al mio ristorante: ho voluto proporre un percorso a una cifra accessibile per andare incontro alle esigenze dei miei ospiti, perché credo che noi dobbiamo essere sempre a servizio loro.
Propone anche il brunch box della domenica in versione take away e delivery: ce lo racconta?
Il brunch box della domenica è nato sulla scia del brunch che già proponevo al ristorante sin dall’apertura, con una parte dolce, torte salate, pesci marinati, uova, un piatto centrale… Ho lavorato tanti anni in albergo: se vogliamo è come se il brunch fosse la colazione dell’hotel trasportata al ristorante. Mi piace mescolare le due attitudini: mentre prima in albergo si cercava di portare la ristorazione, adesso nella ristorazione cerco di portare l’hotellerie, perché credo che faccia piacere.
A proposito di ristorazione e hotellerie: ha avuto un boom negli ultimi anni, ma non tutti sono predisposti nella medesima città ad andare in hotel a mangiare. C’è ancora un pregiudizio per lei?
Non fa parte della nostra cultura, noi siamo più “gente di strada”, quindi non siamo portati a frequentare luoghi chiusi come invece può essere per le culture di altri Paesi, con clima diverso e altre socialità. Nella nostra cultura c’è più il mangiare di strada e la trattoria, per cui c’è una visione diversa. Dall’esperienza in hotel mi sono portato dietro qualcosa, perché l’albergo è completo come formazione: lavori da mattina a sera, sette giorni su sette, dunque ti dà l’esperienza che ti consente di organizzare il ristorante per ogni momento della giornata.
Ci anticipa qualcosa sul piatto che preparerà a Identità Golose on The Road?
Ho presentato una ricetta che riflette l’identità naturale del mio territorio. Si tratta del pescato del giorno, conservato secondo una tecnica antica, per cui preserva tutte quelle che sono le caratteristiche del pesce, per farlo diventare missoltino. Poi ho realizzato una clorofilla di sedano: nella mia ricerca ho visto che il sedano centrifugato, una volta messo in piccoli contenitori, condensa e ha un colore verde molto intenso; lo metto a scolare dall’acqua di vegetazione e condisco la pasta, aggiungo qualche uvetta all’anice e il missoltino. È una ripresa della pasta con le sarde siciliana, in versione lacustre.
Nel suo ristorante lei ha deciso di cucinare solo pesce di lago: scelta più radicale o più coraggiosa?
È anche un’esigenza, in realtà, perché il pesce di mare non arriva così fresco come quello di lago. Io ho lavorato in Toscana, dove il pesce di mare arrivava da San Vincenzo ed era bellissimo… Solo il pensiero di non avere un prodotto con lo stesso colore e lo stesso profumo di quello che usavo allora, mi ha fatto optare per ciò che il territorio mi dà, ossia il pesce di acqua dolce. I nostri ospiti a mezzogiorno mangiano dei lavarelli pescati alle 6 di mattina e questo è un valore aggiunto: noi non dobbiamo fare quasi niente.
C’è ancora un po’ di pregiudizio verso il pesce di lago?
Le persone hanno pregiudizi perché non lo conoscono: lo vedo nel mio ristorante. Tutti hanno paura delle numerose lische, ma se hai una tecnica per spinarlo - come quella che abbiamo individuato noi nel tempo - risolvi la questione. Dipende poi sempre dove vuoi arrivare.
Rivolgersi esclusivamente al proprio territorio per reperire gli ingredienti da cucinare è il futuro secondo lei?
Sì, perché noi in Italia abbiamo la fortuna di avere un territorio fatto di microclimi, per cui in ogni posto si può trovare una diversità: non serve quindi andare a cercare la varietà, perché l'abbiamo già. Si parte dalle rane, si passa per il pesce di lago e si scende fin giù in Sicilia con i sapori di mare. Credo che in un Paese come l’Italia questa è forza.
Il futuro dunque è una ristorazione territoriale e più accessibile?
Sì, io stesso ho sentito l’esigenza dell’accessibilità: il ristorante per me deve essere per tutti. Poi ci sono i grandi ristoranti che rimarranno tali anche nel futuro, ma non posso non mettere in conto quella che è la mia convinzione mentale di un certo trattamento per arrivare alla ricetta. Oggi credo che la grande fortuna della cucina italiana sia riaggiornare la cucina di casa rendendola professionale. Per esempio, preparare cose come la salsa al pomodoro fatta nel coccio, significa avere il criterio di questa grande tradizione che abbiamo, che piace a tutti e che ha una tracciabilità. E quando si mangia si sente la differenza, chi ama la grande esperienza lo riconosce.
Dunque interpretare in maniera impeccabile la tradizione?
Sì, ci deve essere del rigore: il pomodoro, per continuare con l’esempio della salsa di pomodoro, deve essere passato nel passaverdura e non nel frullatore elettrico. Insomma, ci sono tante accortezze, come grattugiare la cipolla con lo strumento di rame, in modo che non escano i liquidi che ossidano… C’è una precauzione nella cucina italiana che fa la differenza. Che non è nient’altro che quello che faceva mia mamma, e che oggi non si fa più nelle case, ma basta mantenere queste buone pratiche.
È un momento difficile per il settore: cosa direbbe a un giovane che vuole fare lo chef, ma è scoraggiato nel perseguire il suo sogno?
Gli direi di farlo, ma con le giuste precauzioni verso questa professionalità. Direi di non andare a archiviare e uccidere il tempo pensando di aver fatto tanto, ma di andare a memorizzare e catalogare ciò che sta facendo. E che un domani sarà importante. Perché comunque quello che a me piace oggi è che i miei clienti mi dicono di amare la mia mano in cucina, e credo che a 47 anni io debba ancora cucinare per i miei ospiti, perché non sono nient’altro che l’artista della cultura, non sono l’artista del piatto.
Interessante questa visione del cuoco come artista della cultura.
Il cuoco è l’artista della cultura, per cui deve realizzare in maniera impeccabile pratiche di base come la rosolatura, scaldare una padella, sapere a che ora accendere il forno ecc. Perché per arrivare fino a lì devi essere forte, e queste sono tutte precauzioni che si acquisiscono solo con la maturità. Lo stesso pezzo di carne che cucini cambia se hai queste accortezze, e si percepisce se le hai interiorizzate o se le hai perché ti è stato detto di fare così, e devi seguire pedissequamente una tabella che in realtà non senti dentro.