La notizia degli ultimi giorni che ha sopreso, commosso e inorgoglito tutti è: la Pizza Napoletana è diventata patrimonio dell'Unesco. Ma cosa significa esattamente e quali ripercussioni avrà sull'economia italiana?
Facciamo un piccolo ripasso: la pizza napoletana viene attestata per la prima volta tra il 1715 e il 1725 negli scritti di Vincenzo Corrado che, verso la metà del Settecento - scrisse un trattato sulla città di Napoli. Bisogna però aspettare il 1889 quando il cuoco Raffaele Esposito fu convocato al Palazzo Regio di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse per Sua Maestà la Regina Margherita le sue famose pizze, dell’Antica Pizzeria Brandi. La pizza margherita nasce quindi con pomodoro, mozzarella e basilico, simbolo della bandiera italiana.
PIZZA NAPOLETANA: PATRIMONIO UNESCO
La pizza napoletana, già riconosciuta dal 2010 Speciale Tradizione Garantita, il 7 dicembre dalla lontana Corea del Sud viene ufficialmente dichiarata Patrimonio Unesco. Sebbene le scuole siano ormai varie ed eventuali - no, la pizza non è legata a Gaeta come sostiene Roberta Lombardi del M5S - quello che è certo è che la pizza napoletana si riconosce per poche, semplici caratteristiche da cui è vietato discostarsi: cornicione, morbido, alveolato, di circa 1-2cm, pasta centrale 3mm, altrimenti "non è pizza" e condimenti semplici, che nelle pizzerie storiche e puriste - una su tutti Michele - si traducono in: Margherita e Marinara. Tutto il resto è noia.
Perchè la pizza napoletana diventasse patrimonio Unesco ci sono voluti molto di più che sperimentazioni gourmet e pizzaioli acrobati: 8 anni di promozione e 2 milioni di firme in 50 paesi, secondo Coldiretti, hanno reso il sogno finalmente possibile. Tra le motivazioni dell'Unesco:
«il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaiuoli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da «palcoscenico» durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria si è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Per molti giovani praticanti, diventare Pizzaiuolo rappresenta anche un modo per evitare la marginalità sociale».
Chi si sia fermato a Napoli per più di un fine settimana, saprà cosa significa una deliberazione del genere: la pizza non è solo il simbolo della cultura e della dieta mediterranea, altro patrimonio Unesco, ma è il chiaro segnale che fare delle proprie eccellenze un'economia viva e uno strumento di promozione dell'italianità nel mondo è possibile. Soprattutto per Napoli.
Una città abituata fin da sempre a fare i conti con una marginalità quasi genetica, a cui gli stessi abitanti si sono abituati nel corso degli anni, ma che hanno sempre sconfitto a suon di ospitalità e bellezza. Quella bellezza unica al mondo, fatta di superstizione, amore viscerale per il territorio e rispetto per la tradizione.
Non è solo la pizza ad essere diventata patrimonio dell'Unesco, è tutta la città di Napoli a esserlo. Una città in cui - in certi quartieri - la dimensione privata quasi non esiste, tanta la coralità nel vivere insieme giorno dopo giorno e condividere tutto. È dai bassi (vasci), dagli scaloni angusti, dalle finestre basculanti che parte la rivoluzione napoletana che nella pizza ha il suo simbolo capace di ribadire il ritorno a quella Campania felix a cui si assiste (finalmente) da un po'.
"Perciò nun' è cercate sti pizze complicate ca fanno male 'a sacca e 'o stommaco patì..." (Scritta nella pizzeria Da Michele a Napoli)