Di Matteo Lorenzini vi avevamo già parlato qualche mese fa, poco dopo l'apertura - o meglio, la riapertura - del SE.STO On Arno. Il giovane chef senese era appena subentrato a Entiana Osmenzeza nelle cucine del ristorante in cima al The Westin Excelsior di Firenze. Una cena di straordinario rigore gustativo ed estetico, ben centrata nonostante l'apertura molto recente, che a distanza di mesi ancora ricordiamo nel dettaglio - come raramente capita - quando ci ritroviamo a intervistare Matteo.
Partiamo dall'inizio, dal suo inizio. Com'è stato il suo percorso da chef?
Ho una storia piuttosto comune. Ho cominciato a cucinare con mia madre, da piccolo. Dopo l'alberghiero sono andato da Arnolfo a Siena, sotto la guida di Gaetano Trovato: un'esperienza incredibile, non solo per la cucina ma anche per imparare come funziona un ristorante a tutto tondo.
Poi è arrivata la Francia.
Tre anni al Louis XV di Alain Ducasse: nessun italiano è mai resistito così tanto. Anni belli ma durissimi, una durezza a cui noi italiani non siamo abituati. Lì hanno un approccio militare e non "familiare": a nessuno interessa la tua storia o com'è andata la tua giornata, solo che ti presenti al lavoro puntuale e sei sempre perfetto e preciso - rasatura compresa. Poi sono passato a Les Crayères, a Reims, principalmente perché volevo avvicinarmi al mondo dei concorsi, e lo chef Philippe Mille ha vinto il Bocuse d'Or.
Qual è la lezione maggiore imparata lì?
Sembrerà scontato dirlo, ma sicuramente il rigore e la coscienza professionale. Noi italiani abbiamo materie prime migliori ma meno dogmi, cosa che può diventare un difetto, come nel caso del Bocuse d'Or: non ci piazziamo mai bene perché non sappiamo rispettare le regole. Ogni anno sono tentato di iscrivermi, e ogni anno rinuncio. Mancano la squadra, il sostegno, i requisiti organizzativi.
Nel 2013 ha aperto Le Tre Lune a Calenzano: dopo un anno la stella, e quasi a seguire la chiusura.
Ci sono state vicende personali in mezzo di cui non posso parlare, ma certo quella di chiudere il ristorante è stata la scelta più difficile e dolorosa che abbia mai preso. Eravamo tre soci, tutti under 30, che avevano aperto un ristorante con 3000 euro a testa e subito conquistato la stella. Mi sono ritrovato a decidere se tenerlo aperto - a costo di grandi sacrifici economici, perché ero rimasto solo - oppure accettare investitori esterni e quindi snaturare la natura stessa del ristorante, accettando compromessi e ingerenze. Ho scelto di chiudere.
Cos'ha fatto per superare un momento così difficile?
Ho ricevuto molte proposte, anche prestigiose, ma non volevo si pensasse che avevo chiuso solo per sfruttare la pubblicità che ne derivava. E poi avevo bisogno di "riorientarmi". Ho fatto un periodo di consulenza a Singapore e sono arrivato al Mandarin di Milano per l'apertura ma, quando è arrivata l'opportunità del SE.STO On Arno, non potevo lasciarmela sfuggire.
Immagine: Alessandro Moggi
Qual è il suo bilancio di questi primi otto mesi?
Assolutamente positivo. 6 ragazzi su 11 sono rimasti, gli altri li ho scelti io: una brigata grande ma unita. Almeno la metà dei clienti sono fiorentini, cosa che mi dà molta soddisfazione.
La parola che si sente più spesso dire di lei è che ha un'impostazione "francese". Le dà più fastidio o piacere?
Mi farebbe piacere, se non fosse che per gli italiani spesso non è un complimento! La tradizione francese è la più antica e una delle più prestigiose del mondo. Trovo però che ci siano chef più francesi di me - e che sicuramente usano più burro! Io mi sento simile a un pilota che sta accumulando ore di volo: Singapore mi ha contaminato, la Toscana anche. Definirla francese vuol dire ridurla. Anche i jazzisti imparano a suonare con uno strumento, ma poi passano a tutti gli altri.
E se dovesse trovare lei una definizione da applicare alla sua cucina?
Ragionata. Classica, ma in evoluzione.