Non ha bisogno di molte presentazioni Matteo Torretta, enfant prodige della cucina e del panorama ristorativo milanese, che a soli 27 anni era già a capo delle cucina di una delle insegne meneghine più prestigiose: il Savini di Milano. La sua carriera a dire la verità incomincia un po' prima al fianco dei nomi più altisonanti dell'alta cucina: Giancarlo Perbellini, Carlo Cracco, Antonino Cannavacciuolo, Enrico Crippa e infine Martin Berasategui, esperienza spagnola che gli ha consentito di tornare a Milano con un bagaglio importantissimo.
Adesso Matteo Torretta di anni ne ha 33, è maturato, caratterialmente e professionalmente, e ha iniziato una nuova avventura a marzo con
Qui lo chef dice di aver trovato la "pace interiore" grazie al supporto di una proprietà che gli ha dato tutto quello che desiderava, professionalità in primis, e una cucina a vista dove può "mettersi completamente a nudo" davanti ai clienti. E se gli chiedete cosa ne pensa del boom ristorativo di Milano vi risponderà che negli ultimi 10 anni la città è cambiata in meglio, ma anche in peggio. Questo e molto altro in questa intervista.
Come inizia la sua avventura all'Asola?
È stato un percorso un po' strano; un annetto fa i titolari del gruppo sono venuti a mangiare in incognito tre o quattro volte dove lavoravo. Una volta incontrati mi hanno parlato di questo progetto molto interessante. A questo punto volevo proporre una cosa nuova per Milano e per la ristorazione italiana; mi sono ispirato all'Atelier de Joel Robuchon di Parigi. Siamo andati allora a vederlo insieme, gli è piaciuto molto e così è nato Asola. Ovviamente il concetto è stato italianizzato e "milanesizzato".
Come mai la cucina a vista e il bancone?
Il concetto del bancone e della cucina a vista a Milano non c'era, e poi mi piaceva l'idea di mettermi completamente a nudo davanti ai clienti. La nostra fortuna oggi è che gli chef sono diventati personaggi pubblici, ed è cambiato tutto. La gente viene e mi vuole conoscere, la gente telefona e domanda se quella sera lavorerò o meno, o mi chiede dei consigli. Interagire con persone sempre diverse è divertente, ma la cosa che mi piace di più è che possano vedermi mentre cucino ad esempio un risotto, un piatto elegantissimo, e vedano in effetti tutto il tempo che si impiega per prepararlo.
Che tipo di cucina si trova all'Asola? Ha cambiato il suo stile rispetto a prima?
La mia cucina è fatta di materie prime eccelse, è rotonda, dai gusti forti e soprattutto è una cucina che fa star bene. All'inizio, dico le verità, pensavo che avrei proposto piatti forse più estremi, però Asola alla fine è un posto trasparente e bisogna lavorare soprattutto per il cliente. La mia cucina adesso è riconoscibile, democratica e onesta. C'è stato un grande cambiamento da quando ero chef del Savini ad adesso; non rifarei più i piatti di quando ero più giovane. Insomma sono molto orgoglioso di lavorare qui, e ho ritrovato una pace interiore incredibile.
C'è un piatto in menu che si porta nel cuore e che la rappresenta?
Lei fa parte di una nuova generazioni di chef milanesi: in cosa secondo lei vi differenziate da chef come Carlo Cracco o Andrea Berton?
Inutile negare che da un punto di vista generazionale le cose siano cambiate a stiano cambiando; noi 30enni siamo stati sfortunati, siamo vittima di un momento storico non proprio facile. I grandi chef milanesi non hanno avuto una grande competizione all'inizio, noi ci siamo invece ritagliati una fetta di mercato dove forse non c'era. Nella fattispecie parlo di me, Viviana Varese, Matias Perdomo, Andrea Aprea, Felice Lo Basso; 7/8 anni fa ci siamo conosciuti tutti durante un concorso di alta cucina. Adesso siamo cresciuti, siamo stati fortunati e soprattutto bravi a imporci in una situazione milanese dove i soliti nomi la fanno da padrona. Una grande differenze? Cerchiamo di fare un po' più di gruppo rispetto alla generazione precedente.
Ancora Milano: com'è cambiata il panorama ristorativo negli ultimi anni?
Negli ultimi 10 anni ci sono stati grandi cambiamenti e se Milano fosse stata una metropoli vera avrebbe fatto il botto e avrebbe rivoluzionato il panorama mondiale, ma la verità è che è un paesone. Due secondo me i cambiamenti grandi: un'esplosione di ristoranti gourmet, ma un abbassamento del livello della media bassa ristorazione. Il problema qui è l'ipocrisia alimentare: mezzi fast food, menu a prezzo fisso con roba scadente. Trovare a Milano un buon Risotto alla milanese o un Ossobuco è diventato difficile, e i prezzi sono sempre alti.
Se non a Milano, dove le piacerebbe lavorare?
Monaco di Baviera: la conosco per motivi personali e lavorativi, ed è una città goliardica e festosa, ma ordinata. Un altro posto è San Sebastian nei Paesi Baschi.
Quali ristoranti consiglia a Milano?
Matias Perdomo e il suo Al Pont de Ferr; per una cosa più informale il Fish Bar di Eugenio Boer. Per sushi e pesce crudo al Finger's di Roberto Okabe, e quando voglio stare sereno vado Al Mercato in Sant'Eufemia di Beniamino Nespor e Eugenio Roncoroni.
Chi è lo chef che in questo momento, secondo lei, rappresenta al meglio la cucina italiana?
Mauro Uliassi: l'unico chef che conserva una forte, e vera, identità italiana.