Nato in Campania, il sommelier Matteo Zappile ha mosso i primi passi nella ristorazione partendo dalle piccole sale.
Dopo gli studi alberghieri, che lo portano all'Hotel Bellevue di Cortina a soli quattordici anni, lavora tra Gran Bretagna, Sicilia, Toscana e Costiera Amalfitana. Arriva quindi al ristorante Il Pagliaccio di Roma, due stelle Michelin dello chef Anthony Genovese.
Tra i riconoscimenti ottenuti, nel 2014 è Miglior Sommelier d’Italia attento alle birre per il Gambero Rosso, nello stesso anno la sua carta dei vini riceve il premio come Miglior Carta delle Bollicine d’Italia per L’Espresso. Infine viene premiato come Miglior Sommelier d’Italia dalla guida L'Espresso edizione 2017.
Noi l'abbiamo incontratrato. Ci ha parlato dei suo esordi, di ciò che impara quotidianamente al lavoro e, naturalmente, di vino.
La nostra intervista a Matteo Zappile.
Come ha iniziato ad occuparsi di vino?
Mi sono innamorato dell'argomento sin dalla scuola alberghiera, quando da giovane cameriere studioso degustavo con i miei professori di Salerno.
Qual è stato il vero “salto” nella sua carriera?
L’approdo a Palazzo Sasso in Costiera Amalfitana. Nel suo ristorante, Rossellinis, due stelle Michelin, l’allora maître Donato Marzolla mi chiamò a lavorare scegliendo tra tanti curricula. Non mi sono più fermato, ho viaggiato, studiato e degustato ogni volta che ho potuto. Probabilmente ne ho perso un po' in adolescenza, ma ho certamente investito nel mio futuro.
Ci racconta com’è stato il suo arrivo al ristorante Il Pagliaccio di Roma?
Ero assistente sommelier a Palazzo Sasso, nel periodo invernale decisi di iscrivermi ad un Master di Analisi Sensoriale a Roma. Chiesi allo chef Pino Lavarra di poter impiegare i quattro mesi della chiusura dell’hotel nello studio. Lavarra chiamò per me lo chef Genovese. Sono arrivato a Roma e non me ne sono più andato.
Come ritiene si sia evoluta la figura del sommelier in questi anni?
Il sommelier oggi è di media più giovane rispetto agli anni passati, è più curioso e sicuramente più formato, è una persona che abbraccia tutte le bevande, non soltanto il vino. Il suo lavoro odierno è quello di interpretare le esigenze dei clienti, non solo in base ai propri gusti, ma anche e soprattutto in base alle circostanze.
Come sceglie un buon vino?
Lo scelgo per sensazoni, un vino mi deve trasmettere emozioni, mi deve raccontare un territorio ed una filosofia di produzione. Io personalmente non ho un vino preferito rispetto ad altri: ogni vino può essere quello giusto, dipende dalla situazione. Abbinare a prescindere o scegliere a prescindere non ha più senso, il vino va contestualizzato in dato tempo e dato luogo.
Come racconterebbe l’esperienza enogastronomica de Il Pagliaccio ad un cliente che non è ancora stato al ristorante?
Il Pagliaccio è un circo di sapori, questo è quello che mi sento di dire. La cucina di questo ristorante è unica, inequivocabile, frutto delle esperienze dello chef Genovese, con ingredienti italiani ed un tocco di Oriente. Sicuramente una cucina a cui affidarsi senza remore. Insomma, qui cerchiamo di far viaggiare i nostri clienti tra Oriente ed Occidente, restando saldamente attaccati alla Capitale.
C’è qualcuno che considera il suo maestro?
Daniele Di Palma, uno dei sommelier con più passione che io abbia mai conosciuto, una persona che ha creduto in me quando tutti gli altri mi consideravano solo un abile studioso della materia. Con lui ho affrontato le difficoltà di un servizio attento ai dettagli e ricco di tensione, come deve essere quello di un bistellato Michelin.
Quale ritiene sia il maggior insegnamento che le ha dato ad oggi Anthony Genovese?
Anthony mi ha affidato il suo ristorante e la sua agenda, facendomi gestire dapprima il servizio e poi tutto l’insieme del ristorante. Sicuramente l’insegnamento più grande è stato quello del binomio umiltà unito a passione. Lo chef mi ha trasmesso quello che ogni giorno lui porta in cucina e nei piatti de Il Pagliaccio. Io cerco di fare lo stesso con i miei ragazzi in sala, non dimenticando mai chi sono e tutto il percorso che ho fatto per arrivare fin qui.
Come apprese, nel 2017, della sua nomina come Miglior sommelier dalla guida I Ristoranti d’Italia de L’Espresso?
Con stupore, emozione, gioia e voglia di fare ancora meglio. Il riconoscimento è arrivato in un momento di grande impegno della mia vita lavorativa, ero appena stato promosso a Restaurant Manager, certamente uno stimolo a fare sempre di più. Da allora ho vissuto il premio con responsabilità, con la consapevolezza che un traguardo come quello è un nuovo punto di partenza e non un punto di arrivo. Io e i miei ragazzi facciamo sperimentazioni tutti i giorni sui piatti di Anthony, cercando sempre di emozionarci con nuove bevande. La base per far quindi emozionare i nostri clienti.
Quale consiglio darebbe ad un giovane che vuole intraprendere il suo percorso?
Pensare al proprio futuro e credere in sé. Io a ventidue anni mi sono reinventato e ho ricominciato da capo perché sentivo che quello era il percorso giusto. Ho affrontato solitudine, incertezze e tante difficoltà, lontano dalle persone care, ma non ho mai perso di vista il mio obiettivo. Oggi sono un trentaquattrenne con tante responsabilità e tantissima passione, supportato ancora da una curiosità innata ed un grande team di lavoro.