Un pastry chef italiano a Tokyo, in uno dei ristoranti francesi più rinomati della città da tre Stelle Michelin: Michele Abbatemarco viene da Monferrato (Piemonte) e a soli 36 anni è a capo della linea di pasticceria del Cuisines Michel Troigros. Qui lo chef ha trovato, dopo tanta sperimentazione e ricerca sulle materie prime nipponiche, l'elegante punto di incontro fra pasticceria europea e gusti orientali.
Un curriculum di tutto rispetto il suo: prima al Chantecler nella cucina Alain llorca, poi da Alain Senderens. La Francia gli regala tanto, ma poi torna in Italia da Ezio Santin a L’Antica Osteria del Ponte, che dopo poco lo porterà proprio a Tokyo, sua casa ormai da 10 anni. L’ultima tappa è nel 2011, quando inizia la sua nuova sfida da Michele Troisgros.
Nel frattempo Michele inizia a comprendere gli affascinanti ingredienti giapponesi e il suo gusto naturalmente inizia ad adeguarsi a quello orientale: i dolci devono essere meno dolci, e lo zucchero non è tutto uguale. Lo zucchero nero giapponese, ad esempio, può donare alle preparazioni sfumature diverse, così come la rapa dolce. Il risultato sono piatti inediti, che non ricalcano pedissequamente i sapori europei e che non cercano di imitare quelli nipponici. Rimangono le creme e la panna, forza della pasticceria italiana e francese, che si mescolano a paste di riso dalla consistenza morbidissima.
Con Michele abbiamo parlato proprio dei suoi ingredienti preferiti trovati in Giappone e in generale della sua esperienza a Tokyo.
Da Monferrato a Tokyo: quali sono gli scogli culturali e gastronomici per un italiano in Giappone?
All’inizio è molto difficile, non lo nego, soprattutto per la lingua, ma come si dice in Giappone “si piange due volte”, quando si arriva e quando si parte, perché all’inizio è dura ma tutto diventa naturale e facile. Vivere a Tokyo è facilissimo, per me non ci sono più differenze con l’Italia.
Da un punto di vista gastronomico è stato un po’ diverso, perché la fusione di due culture gastronomiche qui non è vista in maniera positiva: da un pasticcere o da uno chef straniero i giapponesi si aspettano che faccia cucina straniera. Il successo vero, però, arriva quando si trova il perfetto equilibrio di sapori fra le due culture.

Cos'è cambiato nelle sue preparazioni in questi anni?
Ho fatto dei piccoli cambiamenti nelle mie ricette perché naturalmente anche il mio palato è mutato: vivendo in Giappone ho iniziato a capire che il dolce deve essere un po’ meno dolce, e che come qui in Italia si può giocare con l’acido e l’amaro (in Francia per esempio non sarebbe possibile). In più ho imparato che il cliente giapponese ha voglia di qualcosa di leggero a fine pasto, ha poco voglia di zucchero, per questo ho iniziato ad usarne di meno.
Quali sono gli ingredienti giapponesi che ha iniziato ad usare?
Ho iniziato a sostituire gli zuccheri: mi piace utilizzare ad esempio il succo d’agave, lo sciroppo d’acero, o a seconda delle preparazioni degli zuccheri giapponesi come il Kibi Sato o il Kurozato (zucchero nero) che hanno degli aromi un po’ più particolari, quindi bisogna essere sapienti nell’utilizzo perché possono cambiare un dolce completamente.
Utilizzo anche un tipo di rapa dolce con un’aroma vegetale molto interessante. Mi piace studiare attentamente gli zuccheri prima di dare forma al piatto.
Ci sono altre materie prime giapponesi che adopera?
Uso anche la pasta come la Shiratamako, un amido di riso particolare: sono rimasto affascinato in un viaggio fatto a Kyoto in cui ho letteralmente rubato la preparazione osservando gli artigiani giapponesi. Mi sono innamorato della loro precisione nei gesti. In Giappone ci sono tanti tipi di paste di riso e di tante altre qualità; le forme e le confezioni sembrano tutte uguali, quindi si è portati a credere che siano tutte le stesse, ma se andiamo a guardare bene ti danno dei gusti e delle emozioni diverse.
Solo adesso, dopo qualche anno, sto iniziando a capire cos’è di buona qualità e cosa non lo è.

Come lavora uno chef italiano in una brigata franco-nipponica?
Parlo giapponese e francese, poco italiano, e lo staff è quasi tutto giapponese, cosa che aiuta molto quando immaginiamo e abbiamo delle idee su un piatto; possiamo confrontarci in cucina grazie alle diverse esperienze.
I giapponesi sul lavoro sono abbastanza regolari; in Italia e in Francia si è molto sensibili, si hanno spesso degli sbalzi d’umore che si riversano sul lavoro. Loro sono meno negativi di noi europei, hanno un modo di fare che trasmette serenità e creano un clima dove tutti lavorano bene. Ci sono ovviamente anche i momenti di stress, che però vengono superati facilmente.
Tornare in Italia o in Europa dopo 10 anni sarebbe difficile per lei?
No, assolutamente riuscirei benissimo a lavorare in Europa. Dopo 10 anni dovrei ricominciare ovviamente da capo, riabituarmi alla normalità, ma non credo avrei troppi problemi.