Giornalista sportivo prima ed enogastronomico poi, critico, ideatore e creatore di Identità Golose, il congresso italiano di alta cucina nato a Milano ed esportato a Londra, Chicago, New York. Guardando alla carriera di Paolo Marchi è difficile credere che un giorno abbia dovuto scegliere tra diventare giornalista o chef. Eppure è successo, e viene raccontato in XXL. 50 piatti che hanno allargato la mia vita, il libro in cui Marchi si racconta. E lo fa attraverso i suoi piatti del cuore (o sarebbe meglio dire "di pancia"?), quelli che gli hanno segnato la vita e le tacche sulla cintura. "Non ci sono i miei chef preferiti, non tutti almeno, bensì gli episodi significativi, più o meno collegati".
Cominciamo dall'inizio, ovvero dalla polenta in cui lei, da piccolo, faceva la scarpetta con il pane.
Il cibo è stato un elemento fondamentale nella mia formazione. Eppure i miei genitori non avevano interesse per la cucina: mio padre non ha mai invitato a cena mia madre. Non li ho mai fatti appassionare a questo mondo, ma a Identità Golose venivano. Io invece ho sempre amato cucinare e da ragazzo coglievo ogni occasione per invitare a pranzo amici - e amiche, possibilmente.
Al punto da lavorare per qualche mese ad Åre, località sciistica svedese, come lavapiatti.
Avevo appena finito il liceo. È lì che mi sono innamorato di quella terra splendida, anche se si mangiava malissimo: nelle cucine del ristorante tenevano i blocchi di pasta in frigorifero per una settimana o preparavano risi e bisi con piselli e pancetta in scatola.
Arriviamo al bivio, quando si è trovato a scegliere tra il giornalismo e la cucina. Anche se, in un certo senso, li ha scelti entrambi.
Mi hanno proposto di lavorare in un ristorante stellato e, contemporaneamente, di entrare nella redazione sportiva de Il Giornale. Ho avuto un solo weekend per decidere: a quanto pare ho scelto bene. Sono rimasto a Il Giornale dal 1980 al 2011, viaggiando e assaggiando molto. Mai avuto rimpianti: fare lo chef è stressante, fisicamente logorante. Dimostrano sempre più anni di quanti ne hanno. E poi mi mancavano le basi tecniche, l'ABC della cucina.
Qual è la soddisfazione più grande in tanti anni di carriera?
Quando mi riconoscono in un ristorante negli Stati Uniti o a Londra. E vado fiero di alcuni chef scoperti da me, come Emanuele Scarello. Ma ho fatto questo lavoro perché mi piace, non per il successo, spinto dalla stessa curiosità e passione di adesso. Penso sempre a cosa non va e si può migliorare.
Cosa c'è, secondo lei, che non funziona nel sistema enogastronomico italiano?
Quello che non funziona è il sistema Italia in generale. C'è una voglia incredibile di Italia nel mondo. Offriamo un caleidoscopio di culture e sapori e sappiamo essere accoglienti e ospitali. Ma non possiamo continuare a dare per scontato che vengano da noi: ormai i russi fanno la bresaola, a Melbourne c'è la mozzarella buona e a Central Park trovate 'nduja tradizionale.
E cosa possono fare gli chef, o i giornalisti stessi?
I nostri chef non sono conosciuti all'estero, anche per un problema linguistico. E in patria ci limitiamo a vederli in tv senza mangiare nei loro ristoranti. Un'idea che ho in mente è una guida che giudichi i ristoranti italiani all'estero: chef italiani giudicati da critici e giornalisti italiani. Un modo per raccontarci anche all'estero.
C'è chi dice che, con la sua visibilità, non può più recensire ristoranti in modo obiettivo.
Una volta avere rapporti di amicizia era facile e pulito. Ora sembra impossibile che esista gente onesta. La critica in incognito di per sé non è sbagliata, anzi, però rende impossibile "metterci la faccia": io invece lo faccio, tornando magari nello stesso locale che ho stroncato. Non è impossibile giudicare un ristorante in maniera lucida e oggettiva anche se ti riconoscono: sta poi a me giudicare se mi hanno dato tre ostriche come antipasto, mentre al vicino come benvenuto hanno servito cubetti di mortadella.
Uno chef da scoprire e una meta gastronomica per il 2015.
Antonia Klugmann. E l'Australia, potendo.