Nel corso dell'ultima edizione di Ein Prosit si è parlato molto di mixology. Alcuni dei migliori bartender italiani hanno tenuto masterclass (e allietato gli after party notturni) con la creazione di cocktail ad hoc. Una delle lezioni più interessanti è stata quella di Patrick Pistolesi, che ha preparato tre beer cocktail, usando la birra Asahi, nell’intento di ricreare il Karakuchi, il “gusto secco” con cui in Giappone si definiscono vino, sake e birra che lasciano la bocca pulita.
Patrick inframmezza aneddoti sulla mixology a dettagli tecnici sui cocktail e racconti di viaggio con uno straordinario talento da affabulatore, al punto che gli ascoltatori quasi si dimenticano di bere i suoi drink. Tutti, ovviamente, buonissimi.
Nei suoi 41 anni di vita è già riuscito a diventare una delle figure più importanti della mixology italiana: ha aperto il primo gin bar d’Italia, ha lavorato in un locale storico come il Propaganda e nel 2018, sempre a Roma, ha aperto il cocktail bar Drink Kong, new entry nell'ambito dei World's 50 Best Bars 2019 (dove è stato premiato anche con il Campari One to Watch Award).
Ecco che cosa ha raccontato a Fine Dining Lovers Patrick Pistolesi.
Foto Facebook | Drink Kong
Quando ha iniziato a lavorare nella mixology?
Diciamo che ho sempre avuto un’inclinazione verso l’alcol - dopotutto sono mezzo irlandese. Ho iniziato a fare il barman a 19 anni, cominciando dai gradini più bassi, lavorando anche nelle discoteche, per intenderci, e piano piano il lavoro mi è cresciuto dentro.
Com’è cambiato il mestiere rispetto a quando ha cominciato lei?
Io sono stato fortunato perché ho vissuto il lavoro analogico e quello digitale: per me c’è come un avanti Internet e un dopo Internet. Ora è più facile conoscere i nomi dei bartender e i loro locali: il mestiere è riconosciuto. Gli chef ci hanno “aperto la strada”. E c’è più disponibilità di prodotti incredibili: all’inizio me li sognavo, gli alcolici che uso ora.
Non pensa ci siano anche dei rischi nel far diventare il mestiere “di moda”?
Internet è un’arma a doppio taglio. Così come ci sono i cinesi che fanno sushi, ci sono anche barman improvvisati, che si affrettano a servire i cocktail di tendenza, senza saper fare nemmeno le basi. Ma forse sono quasi peggio i barman capaci, che però si riempiono d’aria, e lavorano solo per se stessi, e non per i clienti. Rendono i loro locali un tempio del bere.
E invece cosa dev’essere, per lei, un cocktail bar?
La gente viene da noi per ristorarsi, per prendersi una pausa da una vita spesso non generosa. Se mi chiedi uno Spritz ti faccio uno Spritz. Se un barman si rifiuta di fartelo non è degno del nostro mestiere, che è fondamentalmente quello di accogliere.
Quindi come si conquista un cliente “riottoso”?
Se da noi non vogliono leggere il menu, gli diamo il cocktail che chiedono, Spritz compreso. Dopo un po’ si guardano attorno, vedono ‘ste coppette bellissime, questi drink strani… e il menu ce lo chiedono loro.
Lei definisce il Drink Kong un “instinct bar”. A cosa serve l’istinto?
Bisogna essere curiosi verso la gente. I bar sono una livella, il luogo meno razzista del mondo. Un barman deve essere paziente, sapere un po’ di tutto e conquistare un cliente: dal capo di Stato al muratore, tutti sono uguali e tutti si lasciano andare. È un mestiere romantico. Anche un sacrificio, eh: lo fai quando gli altri si divertono.
Qual è la sua città preferita nel mondo per bere?
Londra è un posto magico. Ci trovi di tutto. Dall’hotel lussuoso, con barman bellissimi che servono drink stupendi a persone bellissime, all’atmosfera irresistibile del pub, comodo, accogliente. Specialmente quando fuori piove.