Nella sovraesposizione di storie di chef in cui siamo costantemente immersi - biografie mirabolanti, narrazioni pirotecniche, percorsi esemplari - alcune si distinguono più nettamente dalle altre.
Pietro Montanari è tra gli chef più giovani e più conosciuti di Bologna. È figlio d’arte - la famiglia è proprietaria de La Cesarina, noto ristorante nel centro cittadino, affacciato sulla spettacolare Piazza Santo Stefano - ma al mestiere è arrivato quasi per costrizione. Dopo alcune esperienze di alto livello, tra cui Casa Perbellini e la Locanda Margon, tre anni fa ha preso in gestione il ristorante Cesoia.
Un percorso in salita, per conquistare una piazza difficile come quella emiliana, in cui però è riuscito a costruirsi un'identità spiccata e una reputazione solida. Passando da piatti fortemente vegetali come Rabarbaro, tarassaco, polvere di castagna e burro nocciola ad altri che su un'impostazione nettamente francese costruiscono un racconto nuovo, coraggioso e spettinato come solo i ventisei anni sanno essere, come la Sogliola alla mugnaia con salsa allo zenzero, cavoletti di Bruxelles e ficoide glaciale.
Com’è iniziato il suo percorso in cucina?
Ho cominciato “per punizione”. Durante le superiori sono stato bocciato e d'estate i miei genitori mi hanno mandato a lavorare in un ristorante. Non sono più uscito dalla cucina e non sono mai tornato a scuola. All’inizio i miei erano contrari, ma ora sono contenti.
Quali sono state le sue esperienze successive?
Ho preso il diploma di alberghiero serale per poter poi frequentare l’Alma. Ho fatto qualche esperienza in ristoranti tradizionali, ma quella cucina non mi soddisfaceva: si usano gli stessi metodi codificati da secoli senza chiedersi mai perché, mi ero stancato di non capire e ho aperto un ristorante mio.
La Cesoia era, insieme a La Cesarina, un ristorante di famiglia. La transizione è stata difficile?
Mio nonno l’ha gestito per 40 anni, ma non funzionava più, è stato anche chiuso un anno. Non aveva senso proporre una gestione nel senso della continuità e infatti non l’ho fatto: la sua figura, quella dell’oste, era insostituibile. Ho optato per un rinnovamento totale.
Come ha sviluppato la sua cucina?
All’inizio ho proposto piatti che erano una sorta di via di mezzo. Non sapevo se i clienti sarebbero stati pronti, o forse semplicemente non avevo io abbastanza fame. E poi sai come si dice, "Nemo profeta in patria"… Dopo tre anni posso dire di essere arrivato a una cucina che reputo mia, con qualche eccezione, tipo la cotoletta alla bolognese per il pranzo.
E come la definirebbe la sua cucina?
Poche regole ma precise. Niente km 0 a tutti i costi. Importanza della parte vegetale e delle salse e dei fondi - ogni animale nella mia cucina ha il suo.
È dura avere la responsabilità di un ristorante così giovane?
Mettiamola così: i lavori davvero difficili sono altri. Alla fine noi siamo solo un’azienda che dà da mangiare. Trovo che il nostro mestiere sia un po’ troppo enfatizzato. Per me i veri geni in questo settore si contano sulle dita di una mano, e sono quelli che stanno cercando di migliorare la nostra società con azioni di tipo imprenditoriale - penso a Niko Romito con Intelligenza Nutrizionale, a Massimo Bottura con il Refettorio Ambrosiano. Loro si meritano tutta la mediaticità che hanno.
Bologna ha fama di essere una piazza un po’ difficile per chi fa alta cucina. Cosa ne pensa?
Io direi che è un problema dell’Italia in generale. Non è solo colpa dei clienti, però, ma anche dei ristoratori. Nell’alta cucina non ci si può improvvisare e sulla tradizione bisogna mantenere standard alti. Io vorrei vicino tanti locali che lavorano bene per una competizione sana. Penso a città come San Sebastian o, restando in Italia, a Milano, Roma, Torino: a noi bolognesi ci mangiano in testa.
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