Opera. Come qualcosa di operoso, che non smette mai di far lavorare una macchina, quella del duro lavoro e della creatività. Non a caso il sottotitolo di questo giovane ristorante fine dining di Torino è “Ingegno e Creatività”. Due parole che potrebbero trarre in inganno, suonare leziose, e che invece trovano un vero riscontro nella cucina dello chef Stefano Sforza.
In una Torino un po’ defilata, non nel centro più centro della città, ma vicino allo splendido grattacielo firmato da Renzo Piano, sorge Opera. Un ristorante intimo, fin dall’ingresso. Un ristorante caldo, con quei bei mattoni a vista e per il pasto che si sta per consumare. Un gioco, quello dello chef Stefano Sforza, ma anche della sala e in special modo del sommelier Carlo Salino, che riconduce a spazi del gusto capaci di lasciare piacevolmente stupiti. Che virano verso una scelta di acidità inaspettata e interessante. Non solo, sia chiaro. Ma di sicuro colpiscono forte e chiaro.
La scelta di parlare di nuovo a distanza di qualche mese del ristorante Opera di Torino è figlia del fatto che in questo tempo la cucina ha saputo subire un’evoluzione che premia la voglia dello chef Sforza di mettersi sempre in gioco. E poi ci sono i cambiamenti che ne hanno alzato il livello sotto un punto di vista sostenibile: tra tutti la scelta di investire in un orto (e qui bravo è stato anche il giovane proprietario, Antonio Cometto) e quella di eliminare dal menu determinati animali così come ingredienti troppo lavorati industrialmente. Quindi niente fois gras, anguilla, rana pescatrice (queste due specie da poco inserite dal WWF come a rischio) e zucchero raffinato.
Lo chef Stefano Sforza, classe 1986, fa parlare i piatti utilizzando il minimo indispensabile per tirare fuori i sapori. Meglio meno che più. E nel suo curriculum può vantare esperienze come quella alla corte di Alain Ducasse e da Trussardi alla Scala a Milano, giusto per citarne due.
La cena comincia. Una cena che è possibile fare tanto alla carta quanto in un degustazione (consigliatissimo, a 80 euro più vini). E da subito si capisce tanto la mano quanto la filosofia dello chef. L’apertura è una sequenza di amuse bouches divertenti e a tratti piacevolmente spiazzanti. E subito dopo arriva il piatto che da solo riesce a definire con precisione il lavoro dello chef su estremi e acidità: chiamato semplicemente Pomodoro all'apparenza è, ebbene sì, un piatto di pomodori. Ma è davvero incredibile come, in due cucchiaiate, la scelta dei pomodori e del loro condimento riescano a tirare fuori un’acidità stupenda fatta di piccoli salti, picchi e differenze. Un amore, quello per il pomodoro, che lo chef sta sperimentando proprio ora sempre più, con un menu che li vede protagonisti praticamente dall’antipasto al dolce, in una dichiarazione d’amore alla cucina veg e alle sue mille sfaccettature.
Si prosegue in questo viaggio di acidità con una Tartare di capriolo con ciliegie, interessante gioco di consistenze e aspro. Ad accompagnare il tutto ci pensano i vini scelti dal giovanissimo (ha 24 anni) Carlo Salino, che propone soprattutto prodotti naturali e biodinamici spaziando da quelli regionali a estremi vini greci e australiani. Sempre, inutile dirlo, nel nome dell’acidità.
Caco e Aringa
I primi: da una parte la leggera rancidità del Risotto con alici, finocchietto e bottarga quando tutto, invece, urla “saporito” e dall’altra, sulla stessa linea, l’acidità piacevole dello yogurt nei Ravioli di zucchina con il suo fiore ripieno. A seguire, puro comfort food con i Fusilloni gambero, peperoncino e aglio nero fermentato.
Se la mano di uno chef e il suo palato passano attraverso il secondo principale, allora Stefano Sforza di palato e mani ne ha, eccome. Il Piccione, servito con banana e curry, parla invece una lingua diversa: oltre a una cottura di tutto rispetto della carne, qui a prevalere è la gentile dolcezza che accompagna e non stufa.
Storione, cavolo viola, yogurt e caviale
A chiudere in bellezza ci pensa il dolce dove ritroviamo la ciliegia vista in apertura e, ancora una volta, un’acidità spiccata perfettamente calibrata e mai invadente.
Quello che si capisce dopo aver scambiato due chiacchiere con lo chef Stefano Sforza e il suo team è che non è possibile inquadrare la sua cucina. Lo si può fare con la scelta di una cucina che spinge (ma senza stancare palato e cervello), con la scelta etica e la voglia di nobilitare il vegetale.
Il menu che avete letto è già cambiato e cambierà e cambierà ancora. Perché Opera è davvero una macchina che gira, libera da ogni preconcetto, fedele solo alla creatività e al cambio delle stagioni.
Una cucina fatta di più facce, come quella del delivery che permette di stupire anche a casa i commensali, che si riconducono a una faccia sola. Anzi, a tutte le facce che vedrete entrando nel ristorante. Perché le macchine funzionano solo se funzionano gli ingranaggi. E gli ingranaggi non funzionano mai da soli.
Tutte le immagini courtesy of Opera