Se mi dà fastidio essere considerata "figlia di"? No, anzi. È così che mi presento.
Stefania Moroni sarà sempre conosciuta come la figlia di Aimo e Nadia Moroni. E a lei va benissimo: nessun peso dell'eredità che ha sulle spalle, un'eredità invero ingombrante. Sono i suoi genitori ad aver creato Il Luogo di Aimo e Nadia, il ristorante in via Montecuccoli che è un pezzo di storia meneghina. Aperto nel 1962 da Aimo e Nadia, venuti dalla Toscana a Milano appena adolescenti, da trattoria è arrivato a conquistare due stelle Michelin, e ora è guidato dagli chef Alessandro Negrini e Fabio Pisani. "All'inizio i nostri clienti abituali erano gli operai di una fabbrica siderurgica qui vicino" racconta Stefania "Al ristorante si respira ancora quest'aria: nessuno è troppo in alto per non fare qualcosa, non ci sono lavori più nobili di altri. Io posso pulire i bagni, gli chef la stufa, mio padre le foglie davanti alla porta".
Nel mondo della ristorazione italiana Stefania è una figura incongrua, e non solo per il ruolo che ricopre -è CEO de Il Luogo di Aimo e Nadia - ma anche per il modo in cui riesce a far convivere una cultura estrema a una semplicità spiazzante e in cui, lontana da qualsivoglia mania di protagonismo, tesse, districa e controlla quella che lei chiama "la rete" del ristorante da 25 anni.
Quando parla de Il Luogo fa continui riferimenti all'importanza del lavoro di squadra.
Aimo e Nadia non è più una questione di famiglia, è un progetto condiviso. Una realtà che si fonda su una dialettica e un dialogo continui: per qualsiasi problema si fa una riunione, concentriamo la complessità di un'azienda nel minuscolo spazio di un ristorante. Il passo di Aimo e Nadia si prende con il tempo. Da noi si fermano tutti per lunghi periodi, anche i ragazzi di sala - alcuni sono con noi da dieci anni.
Quando e come ha deciso di cominciare a lavorare al ristorante?
Ci ho girato intorno per anni: prima ho studiato dietologia, poi mi sono specializzata in erboristeria. Quando finalmente mi sono convinta a entrare a Il Luogo miei genitori mi hanno detto "Bene, sei arrivata. Ma non sai niente". Ho seguito corsi alla Bocconi e lezioni private per capire le questioni finanziarie ma anche corsi sull'olio e sul vino: mi sono ritagliata un'identità in base a quelli che erano i miei interessi, come l'arte, siamo stati uno dei primi ristoranti in Italia a mettere installazioni artistiche in sala (Theoria degli Sguardi-Assenti e delle Pietre-Animate di Paolo Ferrari, ndR).
Qual è il più grande insegnamento che ha ricevuto dai suoi genitori?
Rinnovare ogni giorno l'entusiasmo, altrimenti nella quotidianità non trovi più nulla da scoprire, nulla per cui valga la pena metterci energia affettiva e creativa. È come rinnamorarsi ogni giorno, delle cose che ti circondano come delle persone. Questo è il vero successo.
Cerchiamo di trarre da ogni gesto quotidiano un senso sempre rinnovato, un mettersi in gioco mai identico. A più di ottant'anni i miei genitori ancora si entusiasmano se scoprono un fagiolo nuovo: la dimostrazione che la vita è sempre meritevole, sempre scoperta.

Com'è stato, mentre cresceva, assistere di pari passo alla crescita del ristorante?
I miei genitori sapevano di voler fare qualcosa di nuovo, ma non sapevano esattamente cosa. All'epoca cucina gourmet era quella francese iper-proteica, le verdure al massimo erano un contorno. Lavorando su cose semplicissime come la cipolla e il pomodoro mio padre ha fatto in modo che lo statuto sociale del cibo non fosse più l'elemento importante in un piatto.
Gli Spaghetti al cipollotto sono nati nel 1965: un piatto che tira fuori il lato gentile, elegante della cipolla. Una rotazione completa anche dal punto di vista semiotico. I giapponesi sono stati primi, negli anni Ottanta, a riconoscere il valore della materia prima e a vedere nei miei genitori due maestri.
Come definirebbe il suo ruolo all'interno del Luogo di Aimo e Nadia?
È difficile dirlo con precisione. Sono intervenuta molto sulla concettualizzazione: per anni i miei genitori hanno sofferto di non aver avuto una formazione ufficiale ed essere autodidatti. Hanno scoperto una strada "altra", un percorso che non c'era nella cucina italiana, poggiando i piedi solo sui sapori della loro tradizione. La mancanza di preparazione "canonica" potrebbe essere stata la loro fortuna.
Mi piace dire che io lavoro sulle persone. Per me è stato fondamentale creare una squadra di collaboratori. Essere donna in questo senso probabilmente aiuta: abbiamo una visione a rete, un intreccio che si lascia permeare dai contributi di tutti. I fornitori del ristorante, ad esempio: sono 82, li sento ogni giorno dalle chiamate ai messaggi Whatsapp.
Non ha mai pensato di lavorare "in prima linea" in cucina?
A volte ci sono stata, in periodi che magari servivano a dare nuovi ritmi, ma soffrivo troppo della lontananza dalle persone. Noi con i clienti non abbiamo un rapporto professionale, ma un legame di affetto e storia: tutta la nostra cucina è una cucina della cura, dell'affettività, rivolta sia verso i civi che verso le persone.
A volte mia madre prepara a casa un piatto su richiesta specifica e lo porta al ristorante. L'altro giorno, ad esempio, ha fatto il suo famoso sugo di beccacce perché lo chiedeva un loro cliente storico.
Qual è il piatto che, per lei, racchiude l'essenza di Aimo e Nadia?
Gli Spaghettoni di Benedetto Cavalieri con colatura di alici di Cetara, cime di rapa, nocciole Tonda Gentile delle Langhe e bianco. Un'italianità che trascende i localismi, facendo sembrare un classico ciò che non lo è. La nostra è una cucina contemporanea che non ha bisogno di tagliare con passato: creiamo il nuovo portando sempre una traccia della storia.