"Farmers are cool".
Quando il cartello viene sollevato, dal pubblico si alza un mescolio allegro di risate, applausi e frasi di approvazione. Che i contadini siano cool lo sanno tutti qui a We Feed The Planet - Terra Madre Giovani, l'evento di Slow Food organizzato a Milano dal 3 al 6 ottobre che ha portato nel capoluogo lombardo 2500 giovani da tutto il mondo tra agricoltori, allevatori, attivisti, chef e produttori.
Tra il Mercato Metropolitano, Expo Milano e il Superstudio Più di via Tortona hanno tutti avuto l'opportunità di partecipare di dibattiti, conferenze e workshop, ma soprattutto quella di conoscersi e confrontarsi con l'entusiasmo consapevole di chi sa che il futuro del pianeta è - in senso letterale - nelle sue mani.
Tutti gli incontri vengono tradotti in varie lingue, ovviamente. Ma camminando tra una sala e l'altra del Superstudio si capisce quanto, dopotutto, le differenze linguistiche qui siano marginali. C'è una studentessa ecuadoregna di 17 anni, che nella sua città collabora con Slow Food e sorride a tutti, per quanto provata dal fuso orario. Ci sono due agricoltori del Kirghizistan che non parlano inglese ma hanno portato a Milano la frutta secca che producono, e la fatica che c'è dietro alla loro (buonissima) uvetta e alle loro noci riescono a spiegartela senza parole. C'è Rohit Jain, che lavora in una fattoria collettiva del Rajastan con 148 contadini facendo vendita diretta. C'è Moira Samson, contadina scozzese che dice "È bello vedere che esistono tanti contadini giovani come me. È bello sapere che ci sono, che ci siamo".
"Qui ci sono persone dal colore della pelle diverso, idee politiche e religioni diverse, eppure sono qui chiamate al confronto, al dialogo, a rivoluzionare un sistema alimentare che non funziona" ha detto Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, durante il discorso inaugurale. I temi sul piano del tavolo sono tanti, dal ruolo delle donne in agricoltura al benessere animale al fenomeno del land grabbing. Ma non ci si limita alle parole.
Hacking the Future of Food, ad esempio, è stato uno dei momenti più interessanti di quattro giorni molto densi e molto partecipati. Un workshop aperto a tutti, in cui i partecipanti sono stati divisi in squadre e sfidati a trovare una soluzione "ai maggiori problemi del settore alimentare". Alla fine una giuria di esperti ha selezionato tre idee che parteciperanno, tra due settimane, all'Expo Innovation Challenge (in palio 20.000 euro e sei mesi di incubazione e monitoraggio con tecno-imprenditori).
Tra i progetti un e-commerce di prodotti del mercato contadino, che si avvale di una piattaforma altamente tecnologica, con cui ad esempio si può visualizzare la mappa del mercato e fare una spesa "virtuale" tra i banchi; Indie Farmer, sorta di "air bnb per contadini" che permette di visitare le fattorie, partecipare a eventi e lasciare le proprie recensioni; un sistema di condivisione e insegnamento di nuovi sistemi di coltivazione come l'acquaponica. Che vincano o meno, la sensazione finale era quella del "Si può fare!" di meelbrooksiana memoria: la nuova generazione di contadini è quella che conosce i sistemi di sharing economy, è cresciuta con Internet, e spesso ha studiato nelle università quello che i loro genitori hanno imparato sul campo.
"È la prima volta dai tempi della Rivoluzione Industriale che la tendenza si inverte. Stiamo assistendo a un cambio di paradigma: i giovani tornano in campagna" racconta Ludovico Roccatello (Fondazione Slow Food per la Biodiversità) durante l'incontro How marginal food production feeds the world. L'importanza delle produzioni "marginali" è stata messa in evidenza attraverso diversi esempi di realtà piccole, ma con straordinarie capacità di resilienza e sostenibilità, messe in difficoltà dal sistema alimentare attuale.
Come le coltivazioni terrazzate, "agricoltura eroica" con grandi capacità di limitare l'erosione dei terreni, o i prodotti - carne, latte, pellame - delle popolazioni pastorali: "I pastori non esistono nelle discussioni internazionali di food policy, ma sono più di 200 milioni di persone" spiega Yon Fernandez de Larrinoa (FAO) "Sono tagliati fuori dal sistema alimentare. Eppure, sostenendo il loro lavoro, si impedisce la sparizione di un patrimonio universale, fatto di specie animali e piante che semplicemente smetterebbero di esistere. La Grande Carestia irlandese del 1800 non sarebbe stata così tragica, se non avessero coltivato solo patate. Il cibo del futuro è quello della biodiversità, non delle mono-produzioni". E prosegue citando un dato in cui sta il senso di We Feed The Planet: "Nel 2050 il 70% delle persone vivrà nelle città. E allora chi sfamerà tutte queste persone? Chi produrrà, coltiverà, alleverà?".
Mi guardo intorno nella sala, e spero che la risposta sia nei ragazzi intorno a me.
Qui trovate il manifesto che è stato prodotto dopo We Feed The Planet.