Sfidare la tradizione, o meglio superarla, per riuscire a creare una sua cucina in Danimarca, dove in 4 anni ha aperto tre ristoranti, di cui uno - il Relae - con una Stella Michelin.
Christian Puglisi è uno chef italo-norvegese: a soli 7 anni arriva nel Nord Europa dalla soleggiata Messina, e la passione per la cucina lo porta in giro per l'Europa - Francia e Spagna - e poi di ritorno a Copenaghen, dove incontrerà sulla sua strada René Redzepi. Per un po' sarà il suo sous chef, almeno fino a quando nel 2010 deciderà di aprire il Manfreds e il Relae, ristoranti gemelli con i quali Puglisi dice definitivamente addio al fine dining vecchia maniera, e dove offre una cucina più casual, lasciando da parte alcuni formalismi.
La Stella Michelin, in questo modo, la prende lo stesso, ma non solo. Il Relae conquista anche il premio per ristorante più sostenibile al mondo per i World's 50 Best Restaurants; Puglisi utilizza infatti tutti ingredienti biologici, auto-produzioni e cerca sempre il meglio dai fornitori locali.
Nel 2014 Christian torna alle sue radici, ma in un modo ovviamente tutto suo; apre così Beast, ristorante affiancato da panificio/salumeria dove tutto gira intorno alla pizza. "Non volevo avvicinarmi alla pasta, perchè sarei stato bollato subito come ristorante italiano. Volevo definire io i miei ristoranti, e non farli definire dagli altri".
Dopo anni di sfida alle convenzioni, anche quelle delle sue origini, Christian si sente finalmente libero di cercare qualcosa di italiano, ma non cede alle classificazioni o ai disciplinari e studia il giusto impasto e ci mette sopra la mozzarella che produce con il suo staff, insiema ai salumi, e apre Beast al quale affianca anche con panetteria/salumeria - Mirabelle.

Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto qualcosa sull'evoluzione dell'alta cucina, sulla pizza e sul lavoro che sta facendo con la produzione in casa di ingredienti caseari e salumi.
Tre ristoranti in 4 anni; in Danimarca è più facile fare ristorazione? In Italia sarebbe quasi un miraggio..
Questa domanda è un po’ provocatoria: non è detto che in Danimarca sia più facile che in altri posti. Ad esempio il Manfreds è nato quasi per necessità. Stavo aprendo il Relae in una strada di Copenaghen conosciuta per lo spaccio di droga; quando ho iniziato i lavori di fronte c’era un altro locale che faceva take away che non andava molto bene, e che stava per chiudere. A quel punto, saputo che il proprietario voleva vendere, ho avuto paura: speravo in una sinergia di locali per ripulire la zona. Mi sono quindi convinto a prenderlo in gestione io e ad aprire il Manfreds per smorzare un po’ la situazione.
Per me il Realae e il Manfreds sono un unico ristorante a due entrate.
Invece il Beast l’abbiamo aperto circa un anno e mezzo fa. Volevo tornare alla cucina artigianale italiana - per me la vera cucina italiana - e da lì è nato il progetto di un altro locale, però no, non c’era uno schema predefinito su cosa fare e quanti locali aprire. In quattro anni è stato tanto per me.

Tutti i tre suoi locali seguono la logica del "Casual Fine Dining", ovvero a una cucina creativa si affianca un servizio light e costi più contenuti. Su cosa ha lavorato per abbassare i costi dal punto di vista di sala e cucina?
In Danimarca si cena già a partire dalle 17, quindi abbiamo iniziato a fare due turni e non uno solo; quello abbassa molto i costi, l’affitto così si prende due volte. Il servizio al tavolo poi è molto semplice: abbiamo un cassetto dove ci sono già posate e tovaglioli, così non c’è bisogno di camerieri al tavolo costantemente. Abbiamo inoltre eliminato tutti quei formalismi che secondo me non sono più attuali: il cameriere non ti accompagna sempre verso la toilette, e non ti versa l’acqua 10/15 volte nell’arco della serata. Nel 2016 nessuno pensa siano cose davvero indispensabili, anzi, sembrano solo antiquate.
Il fine dining tradizionale è destinato ad estinguersi?
Penso di si. Per me i ristoranti tradizionali sono già spesso poco interessanti; l’innovazione e il lavoro creativo non si svolgono solo in cucina, ma anche in sala e in tutta la ristorazione. Se mi siedo a tavola con un menu di 20 portate e 10 abbinamenti di vino, e se ogni volta che c’è da preparare il tavolo con le posate e versare l’acqua c’è bisogno del cameriere, vuol dire che vengo interrotto durante una serata e non parlo più con la mia ragazza o i miei amici. Sono sempre sorpreso che in molti ritengano che quello sia il top della ristorazione.
Utilizzo di ingredienti biologici per tutti i suoi locali: cosa c’è alla base della scelta?
Come spesso accade, quando ti lanci a fare una cosa tua, cerchi di replicare quello che fai già a casa. Io di Bio all’inizio mi interessavo poco, poi ho avuto un figlio qualche anno fa e lì c’è stata una svolta. All’inizio per il Realae avevo scelto di servire solo polli biologici, ma perché ero informato su quell’aspetto. Dopo un po’ ho capito che per me era importante servire a mio figlio un pasto buono ed eticamente giusto, e non avere gli stessi ingredienti in cucina non era etico nei confronti del clienti. Ho capito che avrei dovuto fare dei compromessi logistici, focalizzarmi su alcuni ingredienti e così si è sviluppata l’idea delle forniture e delle certificazioni Bio, che esistono anche per i ristoranti. In Danimarca un ristorante è certificato bio se il 90% delle materie prime è biologica.
Il biologico ovviamente non è perfetto, però mi garantisce un certo standard. Ad esempio il maiale certificato Bio in Danimarca deve avere 2 metri e mezzo quadrato di stalla dove vivere: quelli che usiamo noi hanno 200 metri quadrati di spazio fuori. Il maiale bio è perfetto? No. È meglio di quello non bio e si può fare sempre di meglio? Si.

E adesso lavorate anche con prodotti fatti da voi: salumi e formaggi...
Si facciamo in casa salumi di vari calabri: coppa, lombo, ’nduja, pancetta, guanciali, salamini piccoli, affumicati e poi facciamo ciccioli, prosciutti cotti. La produzione è abbastanza grande, macelliamo due maiali ogni settimana. Ci limitiamo con la stagionatura, con un massimo di 2 o 3 mesi, perché non abbiamo spazio a sufficienza.
Produciamo anche mozzarella, ricotta, mascarpone; per ora non possiamo fare altro perché la legge danese vieta l’utilizzo del latte crudo per la produzione casearia. Nella ristorazione, però, puoi usare il latte crudo se lo pastorizzi tu. Noi dopo la filatura lo passiamo in acqua bollente e quindi lo pastorizziamo. Grazie a questa specifica legislativa adesso anche noi potremo avere le nostre mucche; ne prenderemo 15 per la nostra fattoria a 40 minuti da Copenaghen, da cui verranno anche verdure e altri ingredienti che riforniranno i nostri ristoranti. Abbiamo scelto un'antica razza di mucca danese in via di estinzione, e in questo modo potremo mungere il latte noi stessi, portarlo al ristorante e lavorarlo.
Questo ci porterà a fare cose anche più interessanti, però sempre filati, per legge.

Per capire il tipo di pizza che voleva fare al Beast ha viaggiato un anno fra Italia e Usa. Quali sono i progetti e le pizze che lei sono piaciute di più?
Mi è piaciuta molto la pizza di Franco Pepe, sia per il gusto sia per la sua filosofia. Anche lui non cerca di fare una pizza napoletana vera, quindi la pensa come noi: noi vogliamo fare la pizza del Beast non di altri. Molto buona quella di Gabriele Bonci a Roma, che mi ha aperto molto la testa, ma anche in Usa ho visto delle pizze molto interessanti: ad esempio la Pizzeria del Popolo a San Francisco, che fa quello che facciamo noi, ovvero non vuole fare una pizza napoletana diversamente da altre pizzerie americane che seguono un disciplinare, importando tutto, dalla mozzarella alla farina. Chi fa così non ci si mette del suo.
Seguire un disciplinare, una tradizione senza mai discostarsi, secondo me limita molto l’evoluzione di un piatto e di una cucina. Per me il biologico è più importante di un Dop.

Viene spesso in Italia: secondo lei quali sono i punti forti e deboli della nostra ristorazione?
Per me lo schema fine dining, ristorante lussuoso, è qualcosa che sarà sempre legato ai ristoranti francesi, con il maître e tutti i formalismi di cui parlavamo prima. La sfida della ristorazione italiana è capire che quello non è il livello più alto a cui ambire; il ristorante italiano perfetto deve puntare sulla convivialità con una cucina il più alta possibile, in base al contesto. Inoltre bisognerebbe comprendere che una cucina tradizionale dà sicuramente valore, ma allo stesso tempo frena molto.
E dopo la pizza, adesso tocca alla pasta?
La facciamo dal 1 marzo al Mirabelle, la parte di panificio e salumeria del Beast. Uno dei primi piatti che abbiamo fatto sono dei Gemelli fatti in casa, con pancetta fatta in casa, mascarpone fatto in casa, aglio orsino locale, capperi e sopra ricotta salata, fatta in casa. Tutto molto italiano in un contesto che però scegliamo noi. Non faremo di certo carbonare; entro pochi minuti ci sarebbe una fila di 50 italiani che ti dice su cosa hai sbagliato. Non sono discorsi che mi interessano e voglio affrontare.