Il cioccolato è una cosa seria. La sua lavorazione comporta competenze tecniche e indole creativa, ma anche (e soprattutto) una capacità di controllo in tutte le fasi di gestione. La professione di maître chocolatier può avere tante sfaccettature, specialmente quando si apre una boutique e si avvia un’attività in proprio, mettendo in vetrina praline firmate che rispondano ai gusti dei clienti. Sono pochi i professionisti della pasticceria e, in generale della gastronomia, ad avere acquisito abilità così specifiche da potersi definire mastri cioccolatieri.
Ma come si diventa maître chocolatier? Lo abbiamo chiesto a Charlotte Dusart, 34 anni, originaria di Bruxelles, dal 2018 in Italia. Nel settembre 2019 ha aperto la cioccolateria belga che porta il suo nome a Milano: una boutique con tanto di laboratorio a vista, dove offre una proposta (con una visione del cioccolato) del tutto inedita. “Maître è una parola francese che deriva dal verbo maitriser, che significa saper gestire, padroneggiare: il termine maître chocolatier, dunque, indica colui che sa gestire il cioccolato”, spiega. Il suo motto? “Chocolate is always the answer”.
Ecco che cosa ha raccontato Charlotte Dusart a Fine Dining Lovers.
Ci spiega qual è stato il suo percorso?
Il mio percorso è stato inusuale, perché io ho studiato all’università, mi sono laureata in Comunicazione in Belgio, ma avevo una grande passione per il cioccolato. Ho iniziato a lavorare, dunque, in un altro settore. Visto che finivo di lavorare alle 16.30, ho deciso di frequentare a un corso ad hoc di due anni: un percorso serale per chi voleva cambiare lavoro e approfondire le tematiche del cioccolato (10-15 ore alla settimana). Così, nel 2016, una volta conseguito il diploma di “Artigiano cioccolatiere” al Campus Ceria – Institut Roger Lambion di Bruxelles, ho intrapreso dei tirocini. Dopo i primi due, ho pensato che era un sogno svegliarsi tutti i giorni e creare con il cioccolato. Una passione che, inizialmente, avevo affrontato come hobby, per poi trasformarla nel mio lavoro. Ho completato la formazione pratica da cioccolatiera presso la pasticceria Wittamer a Bruxelles. Poi, dopo essermi trasferita a Milano nel febbraio 2018, a seguito di mio marito, ho iniziato a lavorare da Cioccolatitaliani, una realtà bean-to-bar, per 10 mesi. Qui ho imparato la lingua, ma soprattutto ho imparato a capire i gusti dei clienti italiani: è un mondo diverso rispetto al Belgio.
Quali sono le principali differenze tra Italia e Belgio sull’approccio al cioccolato?
Qui funziona in maniera differente, sotto diversi punti di vista. Quando ho inaugurato la mia boutique, ho dovuto aprire con l’idea della clientela italiana: sono i classici come gianduia, caffè, cappuccino e cremino che funzionano molto. A mano a mano, però, dopo tre anni, le persone tornano nel mio negozio per provare altri cioccolatini come quello all’Earl Grey, che è diventato un must, con il tè acquistato nella bottega accanto alla mia, Giusmìn Tea Lab. In Belgio le persone comprano per sé, magari perché hanno voglia di mangiare un etto di cioccolato, ma ovviamente si regalano anche tanto i cioccolatini, oltre al vino, quando si va a casa di qualcuno come ospiti. Ecco, ho notato che le prime volte che i clienti arrivano nella mia boutique a Milano, è per portare un regalo a qualcuno, per fare bella figura, poi magari tornano. In Belgio, invece, fa proprio parte della cultura e delle abitudini di vita quotidiana il cioccolato. Tutti mangiano più cioccolato da noi, anche per questioni climatiche. Inoltre, quando sono arrivata a Milano, c’era solo Knam, per il resto si andava a Torino, da personaggi come Guido Gobino. Ho notato, in effetti, una scelta più ridotta rispetto al Belgio, alle forme più creative e meno classiche: basti pensare che in Belgio ogni quartiere ha la sua cioccolateria.
Quali sono le strade da intraprendere per chi vuole diventare maître chocolatier?
In Belgio ci sono scuole di Promotion Sociale, sovvenzionate dallo Stato, io avrò pagato 200 euro per due anni di corso, una cifra simbolica. In alternativa, sempre in Belgio, c’è la scuola dove impari un mestiere pratico, che si frequenta dai 14 ai 18 anni, oppure esistono diversi istituti di formazione supportati dallo Stato, gli enti privati non ci sono. In Italia ci sono poche scuole che fanno corsi specifici sul cioccolato, ma è fondamentale per me far seguire un tirocinio a un corso di un mese sul cioccolato, dove si apprendono le basi: l’attività di laboratorio è importantissima e fondamentale. L’ideale in Italia è frequentare una scuola privata per ricevere le basi, altrimenti - chi non ha meno possibilità economiche - può proporsi direttamente in un laboratorio per imparare a livello pratico tutto.
In cosa consiste il suo lavoro, ci spiega le principali fasi di lavorazione del cioccolato?
In un laboratorio è fondamentale avere una temperatrice (io ne ho tre: per cioccolato bianco, per quello fondente e per quello al latte). Il primo step per fare una pralina è preparare la camicia: si mette il cioccolato nello stampo e si fa uscire, in modo che rimanga uno strato sottile di cioccolato, da lasciare indurire nel frigorifero per 10 minuti, pronto per essere poi riempito (con ganache, caramello ecc.), ma è necessario lasciare sempre un piccolo bordo per chiudere il cioccolatino. Poi si mette uno strato di cioccolato sopra, si fa uscire dallo stampo e la pralina è pronta. Per fare una sola tipologia di cioccolatino, mediamente, una persona ci mette una giornata (si inizia alle 8 e alle 15 è pronto).
Qual è la difficoltà più grande che si riscontra facendo questo lavoro?
A volte hai la sensazione che il cioccolato “viva la sua vita”: per esempio, per uno shock termico, perché magari è stato troppo tempo in frigo, diventa bianco per reagire all’umidità. A volte la camicia è troppo sottile ed esce il caramello, altre volte lo stampo è troppo caldo: capire le temperature è fondamentale, perché ogni piccolo errore può avere un effetto sul risultato finale. Si tratta di un lavoro delicato, perché si passa da temperature più alte a temperature più basse: una volta che sai fare quello, puoi giocare e fare tantissime prove. Non bisogna dimenticare di calcolare lo shelf life e il fatto che il ripieno del cioccolatino debba avere una certa durata, perché non è detto che si consumi subito. Poi c’è la parte artistica e creativa, che ritengo bella ma meno “delicata”, perché per me è fondamentale che il cioccolatino innanzitutto sia buono.
Qual è la qualità principale che deve avere un bravo cioccolatiere?
Riuscire a capire le domande dei clienti e essere capace di reinventarsi e migliorarsi, per poterli stupire ogni volta.
Miti da sfatare sul cioccolato?
Molti pensano che il cioccolato fondente non faccia ingrassare, ma in realtà ha le stesse calorie di un cioccolato al latte: dipende dalla percentuale di cacao e di zucchero che si usano. Per esempio, una tavoletta 70% cacao significa che il 30% è zucchero; un cioccolato al latte può avere 70% di cacao, 5% di latte e il resto è zucchero… Ci troviamo di fronte, dunque, a un apporto calorico pressoché uguale.
Perché secondo lei ci sono ancora pochi maître chocolatier e poche donne che si dedicano a questa professione?
Perché, tradizionalmente, la maggior parte delle pasticcerie italiane fa soprattutto mignon e non ha uno spazio dedicato al cioccolato, che necessita di una temperatura di 18 gradi per la lavorazione. Il laboratorio del cioccolato, quindi, non può stare vicino al forno e, se pensi di venderlo solo a Natale o a Pasqua, non lo fai. Poi, per questioni geografiche, sotto Roma fa troppo caldo. Ci sono poche donne, è vero, forse perché c’è molta paura di riuscire, credo che sia necessario dare degli esempi. Se ci pensiamo, ci sono pochissimi esempi di donne in questo ambito (nonostante io abbia un team femminile e i tirocinanti siano quasi tutte donne): conosco tante maître chocolatier negli Stati Uniti e in Australia, ci confrontiamo sui social, contando l’una sull’altra per darci dei consigli.
E che consiglio darebbe a chi, magari ispirato da lei, decidesse di diventare maître chocolatier?
Direi di essere ben circondata o circondato da famiglia e amici, perché all’inizio c’è tanto tanto lavoro: non solo attività di laboratorio, ma anche vendita, marketing, packaging… Se non hai nessuno al tuo fianco, è impossibile farlo. Io avevo una bambina piccola quando ho iniziato e ho avuto l’aiuto e il supporto psicologico di mio marito. Avere una propria attività è una cosa tosta da gestire, non bisogna dimenticarlo.