Un paio di settimane fa mi è accaduta una cosa piuttosto potente: ho avuto il privilegio di provare i piatti firmati dallo chef due stelle Michelin Giancarlo Perbellini serviti all'interno dell'Arena di Verona. Un temporary restaurant attivo per dieci serate nel mese di luglio, durante l'Opera Festival, allestito in uno dei punti più iconici e insieme sconosciuti dell'Arena: la terrazza che congiunge la quinta in pietra all'anello esterno dell'anfiteatro veronese.
Avete presente l'angolo di piazza Bra, altamente instagrammabile e instagrammato, in cui gli archi si fanno più alti e imponenti rispetto al resto della struttura? Ecco, proprio quello: si tratta dell'ala dell'Arena sopravvissuta al terremoto di Verona del 1117 di cui, pur essendoci passata accanto decine di volte in passato, avevo sempre ignorato la storia.
Quello firmato dallo chef Perbellini è stato un menu semplice e intenso allo stesso tempo, pensato per chi non ha troppo tempo da dedicare alla cena prima di accomodarsi in platea a godersi l'Opera. Un concentrato di sapori italiani che non scivolano mai nell'italianità stereotipata, che non strizzano l'occhio al pubblico internazionale dell'Arena ma raccontano piuttosto tutto l'orgoglio di chi gioca in Casa (Perbellini): pomodoro fondente con crema di squacquerone e spuma di basilico, mezze maniche all'olio e peperoncino, emulsione di scampi, pane al prezzemolo, petto di faraona con riduzione di mela verde.

Ancora non sapevo, però, che la cena sarebbe stata solo l'antipasto della mia serata. Perché poi è arrivata l'Opera: quella con la lettera maiuscola, quel Nabucco di Giuseppe Verdi del quale tutti intonano il Va' pensiero non sempre conoscendone la complessità e la quantità possibile di chiavi di lettura.
Sarò sincera: non avevo mai visto un'opera in vita mia e probabilmente, se non fosse stato per questo invito, mai mi sarebbe venuto in mente di farlo. Mi aspettavo un pubblico benestante di tedeschi di mezza età, allenati all'opera teutonica e ben contenti di investire in quelle tre ore e un quarto di spettacolo dalle parole incomprensibili, senza libretto alla mano.
Inutile dirlo, niente è andato secondo le mie previsioni: e non soltanto perché, escluse le primissime file della platea in cui vestiti lunghi e una buona dose di paillettes ancora la fanno da padrona, il pubblico dell'opera si è rivelato quanto di più vario si possa immaginare - turisti, italiani, giovani coppie e persino intere famiglie.
La verità è che trovarmi nel bel mezzo di quello spettacolo così maestoso e solenne - sia che lo sguardo fosse rivolto al palco o verso il pubblico - mi ha lasciato a bocca occhi e orecchie aperte: per qualche ora, dal momento in cui mi sono seduta a cena a quello in cui ho lasciato l'Arena, mi sono sentita travolta da un senso di meraviglia tanto potente e inaspettato da avermi condizionato per molti giorni dopo quel sabato sera.

Io non so se davvero, come affermava Fëdor Dostoevskij in uno dei passi più citati e decontestualizzati de L'Idiota, "la bellezza salverà il mondo". In realtà ne dubito, volendo osservare ciò che ci circonda con disilluso realismo. L'unica cosa che posso dire di aver capito con certezza è che la bellezza, ovunque essa arrivi, resta un antidoto senza tempo all'incertezza e alla precarietà con cui siamo costretti a convivere.
Un balsamo certo, temporaneo quanto basta per ritrovare le forze quando ci sentiamo svuotati, e allo stesso tempo iper democratico. Perché non è retorica ricordarsi che la bellezza è davvero ovunque: nel sapore e nel profumo di un piatto che lascia il segno (io, quelle mezze maniche, me le sogno ancora di notte), nelle dita di un violinista che si muovono sulle corde del suo strumento, nella più famosa aria di un'opera ripetuta due volte perché chiesta a gran voce dal pubblico, nelle nuove esperienze fatte senza alcuna aspettativa ma ancora capaci di sorprendere.
E allora se anche voi, come me, siete tra chi pensa che il primo settembre sia il vero Capodanno, non posso che augurarvi di trascorrere questa estate di (apparente?) normalità - un tempo un po' sospeso in attesa di capire cosa ci riservi l'anno nuovo - facendo il pieno di bellezza. Senza esclusione di senso.